Gemma Salvadori


Continua da “Tra materialità e invenzione: l’ambiente nel cinema muto”.

Durante il periodo fascista il paesaggio italiano è oggetto di ricostruzioni propagandistiche da parte degli operatori dell’Istituto Luce. Sotto il regime, viene prodotta un’ enorme quantità di documentari in cui il duce è il vero protagonista, presente o anche soltanto evocato dalla voce narrante. Nel cinema di finzione, come ai tempi del muto, sono ancora gli interni borghesi e la vita della città a dominare la scena. Il cinema di regime presenta al pubblico un paesaggio nuovo, quello di un paese che andava al di là del Mediterraneo.

Le attualità documentarie, nel cinema muto del Ventennio, assumono completamente la forma di propaganda. Gli operatori dell’Istituto Luce filmano l’Italia.

L’Istituto Nazionale Luce fu istituito da Mussolini, scopo essenziale: la “diffusione della cultura popolare e dell’istruzione generale per mezzo delle visioni cinematografiche messe in commercio alle minime condizioni di vendita possibile, e distribuite a scopo di beneficenza e propaganda nazionale patriottica”. (art. 1, decreto legge n. 1985 del 5 novembre 1925).

Il progetto, che prevedeva la supervisione di Mussolini sui materiali realizzati, aveva il fine di costruire il monumento visivo dell’era fascista, collocando l’onnipresente figura del duce nel paesaggio urbano e rurale. Il passo successivo di questo intervento di propaganda, educazione e informazione attraverso le immagini avviene con il decreto legge n. 1000 nel 3 aprile 1926, con il quale si rende obbligatoria la proiezione di uno o più documentari dell’Istituto Luce prima di ogni spettacolo.

Nel 1937 vennero fondati a Roma gli studi di Cinecittà e del Centri Sperimentale di Cinematografia, la più famosa scuola di cinema italiano ad oggi ancora in funzione.

A livello estetico e tematico il cinema di propaganda porta avanti il modello dell’eroico e del virile entrambi elementi celebrativi del regime e dei suoi ideali.

È strano, e l’abbiamo già notato altre volte, che in un paese a sfondo rurale come il nostro, in cui l’economia agraria assorbe il cinquanta per cento degli abitanti, i nostri registi non sappiano guardare con naturalezza la campagna. Pare che nessuno di essi abbia familiarità con dei veri campi e degli autentici contadini. [1]

L’impegno diretto del cinema fascista nel campo del cinema diviene più netto quando si parla di guerra. A ridosso e durante il conflitto mondiale l’attività di propaganda è intensificata e la produzione si apre anche al cinema semi-documentaristico di Francesco de Robertis (Uomini sul fondo, 1941; Alfa Tau!, 1942) e Roberto Rossellini (La nave bianca, 1942 con De Robertis; Un pilota ritorna, 1942; L’uomo della croce, 1943), dove nel primo, pur restando ben nette l’atteggiamento militarista, i toni sembrano concentrarsi su un’azione impolitica concentrata sugli individui, mentre nel secondo cova già l’atteggiamento linguistico di Roma città aperta (1945).

 

Ma sin dalla chiamata alle armi nel 1936, con l’opportunità di girare in Africa, il cinema aveva risposto con Mario Camerini, Il grande appello, e Augusto Genina, Squadrone Bianco: entrambi, nell’uso spettacolare del paesaggio africano, sembrano guardare al cinema americano.

A questi si erano aggiunti: Sotto la croce del Sud (1938) di Guido Brignone, che mostra la “civilizzazione” italiana nelle colonie dell’Africa attraverso il leit motiv fascista delle bonifiche e della condanna dei rapporti interrazziali; Luciano Serra pilota (1938) film scritto da Rossellini col figlio del duce; Piccoli naufraghi (1939) di Flavio Calzavara, dove lo sfondo della guerra di Etiopia dà vita ad una storia di contrabbandieri in forma di film-fumetto d’avventura.

Il ciclo coloniale bellico si chiude nel 1942, quando ormai il fascimo è sull’orlo del disastro, con Giarabub di Goffredo Alessandrini, sull’eroica resistenza dell’omonimo presidio libico, e Bengasi di Augusto Genina, dove si mostra ormai l’occupazione inglese del Gebel cirenaico, paesaggio “ex-italiano”.

Girati a Cinecittà, non hanno più niente dei paesaggi con i quali, passando per il genere eroico-avventuroso all’americana, i registi negli anni precedenti avevano dato al pubblico l’illusione visiva di un paese, ancora per oltre metà contadino, che andava oltre il Mediterraneo credendo all’immagine criminale dell’Impero.

Continua…


[1] P. Bianchi, L’occhio di vetro. Il cinema degli anni 1940–1943, Milano, Il Formichiere, 1978, p.171
In copertina: Mussolini posa la prima pietra della nuova sede dell’Istituto Nazionale Luce al Quadraro — Apparato scenografico, con gigantografia di Mussolini e scritta propagandistica “La cinematografia è l’arma più forte”, allestito per la cerimonia di fondazione della nuova sede dell’Istituto Nazionale Luce ­ — data:10.11.1937. © Istituto Luce