La casa della musica di Porto deve la sua genesi alla selezione della città come una delle due capitali della cultura in Europa nel 2001. In tale occasione furono invitati a una procedura di gara ristretta cinque studi di architettura a livello internazionale, tra i quali OMA. Il tema era una sala da concerti da posizionarsi ai margini del centro storico, nella rotonda di Boavista.
Il progetto sceglie un tipo di rapporto col contesto che si distacca drasticamente dalla consuetudine, rinunciando appieno a confrontarsi con lo spazio circolare della piazza con un atteggiamento di sottomissione, ma ponendosi invece come soluzione autonoma e indipendente nello spazio che fiancheggia la rotonda, creando un dialogo tra eguali.
In verità il concept del progetto è antecedente alla competizione per la sala da concerti. Conosciamo bene il cinismo pratico che caratterizza molto dell’operato di OMA e Rem Koolhaas, e possiamo portare questo come ulteriore esempio. Tutto inizia da una commissione per una abitazione il cui committente dichiarava esigenze particolari di comunicazione tra gli spazi e particolarità di utilizzo per i singoli membri della famiglia. La risposta dello studio danese fu quella di uno spazio contenitore , capace di ottemperare contemporaneamente a tutte le esigenze nel loro complesso, di assorbire qualsiasi quantità di caos organizzativo. Il cliente non fu mai completamente convinto, ma, di ritorno allo studio, con meno di due settimane per concludere il concorso della sala da concerti, si optò per adoperare con tutto un altro scopo un concept che per una specifica condizione era risultato fallimentare.
Per le sale da concerto si è sempre vissuto il problema della “scatola di scarpe”. Gli studi sull’acustica hanno infatti portato nella storia a doversi confrontare sempre con la stessa forma per ottenere le qualità del suono idonee a una sala da concerti. Il problema di OMA era quindi staccarsi dalla consuetudine delle soluzioni formali abusate, nel tentativo di un linguaggio che fosse personale, caratteristico e contemporaneo. Questo procedimento ha portato a considerare il palazzo come una struttura solida scultorea dalla quale sottrarre i volumi delle sale da concerto e degli spazi organizzativi, creando di conseguenza quelle vetrate idonee al dialogo tra l’architettura e il resto della città. Questo tipo di operazione, come detto precedentemente, è proprio di un metodo di lavoro che appartiene a Koolhaas in questi anni, ma che, in realtà, non rappresenta onestamente il processo costruttivo della fabbrica. Sebbene lo studio lavori concettualmente coi solidi, ne sono esempio le immagini del volume complessivo a cui vengono sottratti e accostati dalle mani dell’architetto gli spazi ricavati, ciò che si viene a creare nella realtà è un rapporto tra contenitore e contenuto, tra involucro e funzioni che distingue una dicotomia irrimediabile. Al suo interno la Casa della Musica contiene le sale da concerto, vincolate nella forma dalle loro esigenze acustiche, all’esterno il solido si posa sulla piazza adiacente alla rotonda di Boavista, con le sue superfici inclinate e le sue ampie vetrate, come fosse un involucro avulso dalla propria funzione. “Generato da logiche interne alla poetica di Koolhaas, quel solido informe non può dialogare con la geometria del lotto, né completare la curva della Boavista Plaza, ma si isola per diventare ‘un oggetto autonomo’ da contemplare attraverso la piazza, i viali e i vicoli, come un’opera scultorea che genera una nuova idea di contestualismo…” (Roberto Gargiani).