Di Chiara Bartali


Mi sono appena laureata in scenografia all’Accademia di Belle Arti di Brera. Durante questo percorso triennale ho appreso, oltre al gusto per la composizione di uno spazio e le capacità tecniche necessarie, l’importantissima e forse banale relazione tra l’architettura e la scenografia.

In generale la progettazione di una scenografia consiste nel riempire e creare uno spazio dove si possa svolgere una vicenda, con allestimenti che provocano l’illusione, badate bene, solo l’illusione di una struttura solida e reale.

Il lavoro come scenografa teatrale consiste nel raffigurare i luoghi suggeriti dal testo. In molti testi (soprattutto in quelli meno contemporanei) lo spazio è descritto molto dettagliatamente. Compito dello scenografo prima di tutto è quello di svolgere una ricerca approfondita sui luoghi scelti dall’autore (se sono reali) e sullo stile architettonico in voga nell’epoca in cui si svolge la vicenda. Per la progettazione di una scenografia si deve anche tener conto del personaggio che andrà ad abitare quella scena. Lo spazio deve saper rappresentare il carattere e la storia di un personaggio di modo che la scenografia possa essere supporto per l’attore.

Il compito dello scenografo è quello di ispirarsi all’architettura per trarne particolari che diano la sensazione di uno spazio definito, senza rappresentarlo a pieno, questo per lasciare spazio all’immaginazione e al coinvolgimento emotivo dello spettatore, carattere su cui si fonda la magia del teatro.

Il mio primo lavoro è stato “Giulio Cesare” di William Shakespeare. L’opera è ambientata nell’antica Roma e racconta la congiura che portò all’uccisione di Cesare per mano del suo fidato amico Bruto. Ho studiato a fondo le architetture romane di quell’epoca, cercandone una che potesse essere trasfigurata per comporre uno spazio che desse l’idea di una Roma perfetta e immacolata all’apparenza ma che con l’utilizzo della luce e delle ombre proiettate, potesse mostrare, l’altra faccia di Roma: quella del complotto e della corruzione.

Dopo numerosi bozzetti e copie dal vero di ruderi romani, ho deciso di ispirarmi alla facciata del teatro d’Aosta, luogo non presente nella vicenda ma le cui caratteristiche si adattavano all’idea che avevo per questa scenografia. Togliendo l’ultimo ordine di arcate, ho stilizzato la forma mantenendo le imponenti lesene poste tra un modulo e l’altro. Usando la divisione data dalle lesene ho potuto scomporre la mia scenografia in moduli, creando spezzati ripiegabili e divisibili.

Uno spazio simmetrico e pulito, che grazie al materiale scelto per la costruzione creava gli effetti di luce da me desiderati.​

 

 

Durante il secondo anno ho lavorato alla scenografia per il balletto “Don Chisciotte”, libretto di Mario Petipa e musiche di Ludwing Minkus. Tale opera, come il romanzo da cui è tratta, è ambientate in Spagna. Per la scenografia mi sono ispirata a un grande architetto spagnolo famoso per l’originalità dei suoi lavori, nel quale vedevo esattamente la figura di Don Chisciotte, un romantico folle, bellissimo e caotico che si butta a capofitto in pazze imprese per costruire il suo mondo ideale.

L’architetto scelto è stato Antoni Gaudì. Stavolta non ho svolto una ricerca architettonica in base all’opera ma alle sensazioni che le architetture di Gaudì mi provocavano. In esse ho visto nitidamente Don Chisciotte. Non si può spiegare ragionevolmente un perché, volevo indurre lo spettatore la sensazione che la scenografia riflettesse perfettamente il personaggio, creando il supporto ideale per i ballerini. Ho ricercato le più importanti architetture di Gaudì e preso spunto dai mosaici e dalle forme. Non mi sono limitata a copiare l’architettura ma ne ho tratto gli elementi. L’effetto finale è stato quello di una scena caotica e colorata, con sculture di “giganti” (che poi non erano altro che i comignoli sul tetto della casa Milà), mulini a vento e mosaici. L’elemento principale per la scenografia è stato preso dal cancello di casa Milà, una struttura in ferro i cui fori suggeriscono figure astratte e non, una confusione di forme che ogni spettatore può vedere in modo diverso a seconda della sua immaginazione o dei suoi ricordi.

Anche il costume è stato affrontato nello stesso modo, cercando le forme anatomiche umane nelle architetture e trasformandole in vestiti.

 

 

 

Anche per “L’amore delle tre melarance”, di Carlo Gozzi con musiche di Sergej Prokofev ho preso ispirazione dalle case della Cina imperiale. È stata una mia scelta registica ambientare questo spettacolo in Cina, spinta dalle impressioni suscitatomi dalla lettura del testo. Le melarance diventano quindi lanterne di carta e gli spazi sono definiti da paraventi sui quali le immagini cambiano a seconda del luogo in cui ci troviamo. L’opera assume un carattere giocoso, una specie di caricatura cinese di una favola occidentale.

Il testo teatrale provoca l’immaginazione di chi lo legge, che nella sua testa si figura uno spazio composto da sensazioni e immagini appartenenti alla sua memoria e alla sua storia personale. L’ispirarsi alla storia dell’architettura è un espediente automatico per la realizzazione di una scena in quanto nel testo spesso vi sono indicati luoghi definiti.

La stessa scenografia può essere intesa come un architettura vera e propria. Uno spazio costruito dentro un altro spazio che è quello del teatro o del teatro di posa. Uno spazio artificiale e costruito per effetti ottici e prospettici, composto da quinte, telette e praticabili che simulano la realtà, costruiti ovviamente in maniera non permanente e per permettere la maggiore praticità possibile nello spostamento.

Uno scenografo crea l’illusione di un’architettura. Tale architettura può essere accennata e intuitiva in uno spazio teatrale, o copiata e ricostruita in un set cinematografico.

Per la progettazione di una scenografia cinematografica il processo progettuale è lo stesso che in architettura, si tratta di creare ambienti esterni e interni tenendo però conto della macchina da presa che deve poter arrivare a riprendere completamente lo spazio. Si progetta un luogo in tutti i suoi particolari tenendo conto però che esso può servire per inquadrature specifiche e che spesso deve poter essere rimosso. Le case e le strade che possiamo ammirare a cinecittà sembrano reali, vere, in ogni piccolo particolare, ma in realtà sono in resina, e sorrette da tubi innocenti, raramente sono praticabili e gli interni di tali edifici vengono ripresi in location o in teatro di posa.

Subito dopo i primi tre anni dove ho principalmente progettato scenografie per il teatro mi sono buttata nel corso specialistico di cinema e tv. L’approccio è notevolmente differente rispetto al teatro ma nonostante la difficoltà ho deciso di allestire la mia scenografia per il film “Codice Privato” (Francesco Maselli, 1988) all’interno di una torre medievale, costruendo un appartamento che si sviluppi in verticale. Per tale spazio, dove le strutture predominanti sono le rampe di scale ho deciso di ispirarmi a Carlo Scarpa, raccogliere la maggior quantità di immagini delle sue scalinate per fonderle in qualcosa di personale. Seguendo le impressioni e le emozioni provate durante la lettura della sceneggiatura, ne ho ricavato l’immagine di un ambiente complicato, composto da scale e da prospettive aberrate, tale immagine mi ha condotto alle opere di Escher, dalle quali ho tratto spunto per un’atmosfera un po’ delirante dove non si capisca la fine degli ambienti e tutto sia messo in discussione.

Nel creare ambienti di questo genere, cioè interni di case o luoghi riferiti e abitati da uno specifico personaggio, è importante tenere conto dell’attore. Lo spazio deve appartenere veramente all’attore scelto, esso si deve poter fondere con esso, deve essere suo. Spesso arrediamo le nostre case o stanze secondo il nostro gusto e quando una persona vi entra riesce a percepire la nostra presenza negli oggetti, l’ambiente che abbiamo creato ci rappresenta e si modifica secondo il nostro umore o il nostro modo di essere. Allo stesso modo lo scenografo deve creare uno spazio che rappresenti a pieno l’attore che lo abita, di modo che si possa riconoscere in esso e che anche un pubblico possa dire: “Cavolo! Sembra proprio la casa di Tizio Caio!”. Un esempio estremizzato della metamorfosi di uno spazio che segue il percorso emotivo del personaggio si ritrova nel film di Michel Gondry “Mood Indigo” (2013) dove la casa dei due protagonisti muta di forma e colori con l’avanzare della trama.

In scenografia si tratta di far percepire uno spazio definito attraverso piccoli elementi come la luce o un accenno di un’architettura.

Ad esempio nel suo Amleto Peter Brook, delimita lo spazio con un semplice quadrato rosso. Non vi sono architetture costruite, ne quinte o elementi scenici. Il lavoro di Peter Brook si basa sullo spazio vuoto, uno spazio che però, grazie ad una semplice e sottile linea noi percepiamo come definito, forte e invalicabile. La magia del teatro e la capacita di immaginazione dell’uomo ci sorprendono ancora una volta, creando un architettura d’aria, fatta di niente, ma non per questo inesistente. Negli spettacoli di Peter Brook l’attore diventa colui che attraverso la sua performance costruisce l’architettura, muovendosi entro uno spazio ne traccia i confini e lo riempie.

 

 

Le scenografie di Bob Wilson invece giocano quasi tutto il loro impatto sugli effetti di luce. Ne risulta un ambiente onirico, che ricorda le opere metafisiche. È un’architettura scolpita con la luce, con pochi elementi dalle forme semplici o geometriche. Nel suo “Odyssey” Bob Wilson racconta la storia di Ulisse con una scenografia semplice e pulita, pareti inclinate che provocano l’illusione di una grande profondità, e per la scena di Polifemo un enorme mano che cattura i personaggi.

 

 

L’architettura si fa simbolica.
Lo scenografo è l’architetto delle illusioni.