Andrea Crudeli, Francesca Moschini, Giulia Grassi,
Leonardo Magursi, Marta Gnesi


Nel 1995 Alejandro Aravena, deluso da una serie di committenze commerciali, tra cui ristoranti e negozi, si ritira dal mondo dell’architettura e decide di aprire un bar. Il locale si chiamava “Sin Nombre”, e per due lunghi anni vive di notte dietro ad un bancone, svegliandosi alle cinque di pomeriggio e andando a letto alle dieci di ogni mattina. Un giorno indefinito del 1997 un amico scultore gli chiede di progettargli la casa. Aravena accetta, ma ad una sola condizione: avrebbe voluto avere libertà totale sulle scelte progettuali senza intromissioni, e in cambio avrebbe rinunciato alla sua parcella. Il cliente glielo acconsente, e così la passione per l’architettura si accende nuovamente. Da quel momento in poi la sua carriera sarà costantemente in ascesa.

Alejandro Aravena nasce nel 1967, fa il suo ingresso nel mondo dell’architettura nel Cile della fine degli anni ’80, sotto l’ombra di Augusto Pinochet, dove l’informazione e la formazione avevano contorni incerti. Così, armato di taccuino e righello, l’enfant-prodige comincia ad osservare gli edifici attorno a lui che crede più importanti, seguendo criteri in gran parte istintivi, fino ad un viaggio in Italia dove divora visivamente Venezia e si abbuffa delle sue proporzioni. Infatti dopo la laurea nel 1992 presso la Pontificia Università Cattolica del Cile, frequenta corsi post-laurea presso lo IUAV e di incisione presso l’Accademia delle belle arti di Venezia.

Nel 1994 fonda “Alejandro Aravena Architects”, e, dopo la pausa da barista, continua la professione privata fino a diventare Docente di Harvard nel 2000, posizione che ricoprirà fino al 2005, per poi tornare sulla cattedra dell’Università Cattolica del Cile.

 

 

Di lui si sanno poche cose, ama portare la camicia fuori dai pantaloni, possibilmente non stirata, ha gli occhi grigi, gli piace l’omelette al formaggio e ha uno strano rapporto col parrucchiere, ma quando parla sa incantare con il carisma tipico dei condottieri sudamericani, come se fosse venuto fuori da un libro di Garcia Marquez, sappiamo che al liceo era indeciso tra il proseguire gli studi nel campo dell’arte o in quello della scienza, così ha optato per la facoltà di architettura, quasi per esclusione, nessuno nella sua famiglia era architetto, e se gli si chiede chi metterebbe nel suo pantheon delle persone più importanti per la sua vita preferisce dirti i nomi di chi lo ha colpito umanamente, piuttosto che architetti celebri a cui si è ispirato, e ti racconta di quel suo professore Fernando Perez che lo ha introdotto nel mondo dell’architettura insegnandogli che non era solo un fatto di talento, ma di principalmente comprensione, ed Hernán Riesco, altro professore che gli ha insegnato a trovare nell’architettura risposte di domande che appartengono alla sfera della politica, ma alla fine, se proprio si insiste, e gli si chiede di proporre qualcuno più conosciuto, Aravena ti risponde Rakesh Mohan, deputato governatore della Banca Centrale dell’India, “un genio dell’economia”, sostiene.

Si legge alle motivazioni della vittoria del premio Pritzker che Alejandro Aravena è stato premiato perché “attraverso i suoi progetti si occupa di creare opportunità per i meno privilegiati, mitiga gli effetti dei disastri naturali, minimizza il consumo energetico degli edifici e da’ grande dignità agli spazi pubblici”. Tom Pritzker, presidente della Fondazione Hyatt, che sponsorizza il premio, ha detto “innovativo e inspirante, Aravena mostra come l’architettura possa migliorare la vita delle persone”.

La vittoria di Aravena farà storcere il naso a molti addetti al mestiere. Infatti il workflow di Aravena è piuttosto insolito nei dibattiti dei salotti di architettura ed è raro trovarne di assonanti nelle riviste. Nella sua gerarchia di priorità antepone lo studio delle contingenze sociali e geografiche a quello della ricerca stilistica (senza dimenticarsi anche di questa, naturalmente). “Se crediamo di essere bravi progettisti, perché non cerchiamo di applicarci nelle questioni che davvero contano?” sostiene Aravena. Rigetta il metodo deduttivo dell’architettura contemporanea occidentale e ne imposta uno parzialmente induttivo, dove l’esperienza sensibile è il punto di partenza dell’iter progettuale. Si pensi, ad esempio alle modalità di accettazione dei tirocinanti nello studio: piuttosto che selezionarli attraverso la lettura dei cv e dei portfolio, si mette subito alla prova il candidato proponendogli un test da risolvere entro cinque giorni. Un chiaro approccio esperienziale alla professione, che rispecchia quello della filosofia dello studio di Aravena.

Le sue attività di architettura si svolgono nello studio “Elemental”, collettivo fondato nel assieme all’ingegnere Andres Iacobelli, nato dalla coesistenza insolita con la compagnia petrolifera cilena COPEC e con la Pontificia Universidad Católica de Chile. Il nome dello studio, Elemental, ricorda che un progetto elementare sia sempre la scelta migliore. E’ qualcosa che va dritto al cuore delle questioni. Elemental divide in tre parti uguali il proprio tempo di lavoro, una parte va alle abitazioni sociali, una ai clienti privati, e una terza si concentra sugli sviluppi urbanistici delle città, specialmente quelle cilene.

Il primo contributo alla causa delle abitazioni sociali arriva nel 2003, quando gli viene commissionato un problema apparentemente senza soluzione: la progettazione di abitazioni per 100 famiglie in Iquique, una città nel nord del Cile, con un budget che permetteva, tra l’acquisto del terreno e la costruzione delle case, soltanto una delle due operazioni. Questo episodio, come altri simili di social housing, sono progetti che molti architetti rifiuterebbero per la bassa retribuzione.

Ma suo fare architettura c’è forte consapevolezza del compito storico della professione, cercando di affrontare il problema della progettazione come fatto che oltrepassa la propria generazione per impegno civile e organizzazione sociale, e in questi termini Aravena assume i tratti di un visionario, un uomo che possiede la virtù della lungimiranza, conscio delle contraddizioni e delle tensioni che governano il sistema socio-economico del globo, e fiducioso dei propri strumenti per affrontarle quando si affida alla sua limpida equazione che va ripetendo in ogni intervista o conferenza: “più è grande il problema, più la sua soluzione ha bisogno di semplicità”

Rispetto alla concezione dell’architettura concepita come un tassello all’interno del processo produzione-consumazione, dove la logica dello sviluppo della città segue necessità economiche, di ottimizzazione e profitto, in cui l’uomo è soltanto l’utilizzatore finale di un prodotto edilizio, nella professione di Aravena questa sovrastruttura lineare viene ribaltata: Aravena non toglie nessuna delle carte in tavola, ma ne cambia l’ordine di gioco: l’interazione umana viene anteposta al prodotto finale, invitando l’uomo a partecipare alla progettazione. Imposta un dialogo orizzontale con i destinatari delle sue opere, studiando le connessioni profonde che legano gli uomini, tra di loro e con i luoghi, rifuggendo il ruolo tradizionale di progettista con le risposte dall’alto, arrivando a soluzioni sempre originali perché “il progetto non sarà mai lo stesso dato che le persone attorno sono sempre diverse”.​

 

 

Affronta le questioni delle migrazioni dai territori rurali ai tessuti urbani ad alta densità, interpretando la città come uno strumento democratico che deve equidistribuire servizi e opportunità, infatti “le case popolari sono una questione difficile che merita di essere svolta con qualità, non con carità”.

Aravena racconta in un intervista al The Guardian che successivamente al completamente di un complesso di abitazioni sociali nel nord del Cile, si ritrovò a mostrare il progetto al presidente della compagnia nazionale del gas passeggiando tra le case. Formandosi a parlare con una donna che abitava in quelle case, emerse che il figlio della donna e il figlio del presidente erano entrambi studenti dello corso di laurea e addirittura nello stesso gruppo di studio.

Il senso di questa storia, sottolinea Aravena, è nella scelta politica di voler costruire un complesso di edilizia popolare nella zona centrale di una città piuttosto che in periferia. Se le abitazioni fossero state costruite nelle periferie, le possibilità che il figlio della donna avrebbe avuto di muoversi verso il centro della città sarebbero state ridotte notevolmente a discapito del suo proseguimento degli studi. Ecco che la parola chiave diventa “accessibilità”.

Aravena è stato anche scelto come curatore della prossima Biennale di Architettura di Venezia, dove inviterà i partecipanti a condividere soluzioni di problematiche comuni a tutto il mondo, come l’edilizia a basso costo e il tema energetico, con esempi che propongo di agire invece che farsi rapire dalla rassegnazione e dall’amarezza, “volendo dimostrare che in un dibattito costante centrato sulle qualità di un ambiente edificabile, risiede non solo la necessità ma anche l’occasione per l’azione”.

Si comprende come la grande forza motrice nel lavoro di Alejandro Aravena è il principio del “ribaltamento”, il modo in cui, cambiando punto di vista, trasformi la natura delle variabili di un problema. Si pensi all’idea di canalizzare verso una direzione comune fattori divergenti e comunemente ritenuti incompatibili, come l’inclinazione culturale di un nucleo di persone ad ampliare abusivamente un’abitazione, trasformata dall’architetto in risorsa locale per completare le costruzioni, prevedendone l’entità e suggerendone la direzione dell’espansione, come nelle case popolari di Iquique, il ribaltamento di uno spazio pieno in uno vuoto nel tema degli edifici verticali multipiano, la percezione del luogo di lavoro da chiuso ad aperto, come nel Centro di Innovazione UC, oppure la sostenibilità come conseguenza della buona architettura e non come vincolo, la natura più come minaccia ma come risorsa, come nel progetto di Constitution.


PRES CONSTITUCIÓN — Proyecto de Reconstrucción Sustentable

Nel 2010 uno tsunami di magnitudo 8.8 rade praticamente al suolo la città di Constitución, in Cile.

Lo studio “Elemental” viene incaricato di redarre un progetto per la ricostruzione della città, un arduo compito se si considerano le pressioni politiche, economiche e sociali oltre al problema progettuale in sé.

A nostro avviso la qualità maggiore del progetto, attualmente in fase di realizzazione, è la capacità di usare gli elementi architettonici propri della scala urbanistica per intervenire con sensibilità e acume in punti sensibili del territorio, in modo da restituire con pochi gesti identità, funzionalità e benessere alla collettività.

 

 

Tramite una fascia boschiva, che funge da intercapedine tra l’estuario del fiume e la città edificata, si restituisce accessibilità al fiume ovvero a luoghi fondanti l’identità della popolazione e si collega idealmente e funzionalmente architetture simboliche, come la biblioteca e il centro culturale. Quest’area, introdotta anche per costituire una zona di decompressione dell’energia di un’altra ipotetica onda, coglie i segni topografici del territorio e si interfaccia direttamente con la matrice geometrica del tessuto urbano collimando delicatamente ove necessario e adeguandosi perfettamente al contesto antropizzato e non.

Se poi si considera che tutto questo è stato progettato nel giro di 100 giorni, ha proposto e sviluppato un percorso partecipativo con la collettività, non ha ceduto agli interessi finanziari dei costruttori (ovvero la costruzione di una muraglia di cemento come barriera contro altri disastri naturali) ed è perfettamente sostenibile economicamente con le risorse preventivate, non si può fare a meno di ammirare la capacità di sintesi culturale che questo studio è stato capace di portare avanti: ha letto le esigenze contingenti, la storia di una città, la conformazione di un territorio ed ha risposto con lucidità, decisione e semplicità.


Quinta Monroy

Nel 2000 a Quinta Monroy vivono 97 famiglie, vi si sono stabilite illegalmente dagli anni ’60. Nonostante le condizioni insalubri e precarie delle abitazioni non accettano la proposta delle autorità di trasferirsi in un nuovo quartiere più periferico, sentono di appartenere a quel ‘barrio’, lì hanno costruito le loro vite. Elemental Studio si trova di fronte ad una sfida: convincere quelle persone a lasciare le loro case, temporaneamente, e allo stesso tempo, con risorse di spazio e denaro molto limitate, costruire per loro un futuro migliore, lì dove si sentono a casa. Devono accomodare 97 famiglie in 500 m2 di terra con 7500 $ a disposizione per ogni famiglia. La risposta a questa difficile equazione viene dal confronto con gli abitanti stessi che sono coinvolti nella progettazione sin dall’inizio.

Essi non accetterebbero mai di vivere in palazzi che si sviluppano in altezza, (nonostante il terreno sia una risorsa molto costosa vista la centralità della zona) perché pur essendo disposti a vivere in un quartiere ad alta densità vogliono poter avere i propri spazi e la possibilità di espanderli. Allo stesso modo rifiutano l’idea di vivere in piccole casette (sebben isolate) di soli 40 m2 perché riconoscono il loro diritto ad una vita decorosa, in spazi adeguati.

Così è nato un progetto senza precedenti, dove ognuno ha messo a disposizione le proprie capacità: gli architetti con gli strumenti della progettazione e gli abitanti con la chiara consapevolezza dei propri bisogni. Invece di progettare un’intera casa ma angusta, ne creano la metà di una buona con la possibilità di essere espansa individualmente dai propri abitanti, ovviamente dando la precedenza a quella metà che la famiglia non sarebbe in grado di costruirsi da sola. Organizzano lo spazio in 4 unità da 20 famiglie con una grande corte al centro di ognuna, ottengono quindi delle costruzioni compatte, che non occupano troppo terreno, lasciando però tra ogni singola abitazione un corridoio di spazio vuoto per una sua estensione libera, ma guidata. Un esempio di vera progettazione partecipata, di architettura sociale che nasce laddove l’architettura tradizionale non riesce a dare una soluzione.


UC innovation center

Il nuovo polo per l’Università di Santiago racconta come Aravena interpreta il delicato rapporto tra tradizione, tecnologia e innovazione. Attraverso enormi setti monolitici il progetto inverte la morfologia standardizzata dell’edificio multipiano moderno, in cui le facciate sono quasi sempre composte da curtain wall trasparenti mentre servizi e impianti vengono invece racchiusi dal rigidissimo core centrale, nascosto il più possibile dalla vista. Tale soluzione introduce nella pratica contemporanea innumerevoli complicazioni legate a struttura e impianti, alle quali si può senza dubbio trovare una soluzione tecnologica, con materiali ad altissima resistenza e centrali termiche di ultima generazione. Tuttavia, cercare di risolvere con tecnologie esasperate problemi a loro volta introdotti dalla tecnologia stessa, porta ad un profondo controsenso.

Aravena intuisce il problema e capisce che la soluzione deve stare nel progetto, e imparando dalla buona pratica costruttiva antica, realizza una spessa cortina muraria esterna, che può quindi alloggiare servizi e impianti, formando una difesa dall’atmosfera esterna e dall’irraggiamento molto più efficace di qualsiasi vetro bassoemissivo. Ne trae beneficio anche il comportamento meccanico globale dell’edificio, il quale attraverso lo spostamento degli elementi resistenti verso l’esterno aumenta notevolmente la sua rigidezza.

Infine, lo spazio lasciato libero dal core centrale permette all’edificio di avere un patio che fa nascere nuove possibilità di interazione tra gli occupanti. Il rapporto con il mondo esterno avviene sulle grandi cavità della parete, che per la loro scala sono più simili a piazze che a terrazze, e che permettono di percepire lo spessore dei setti esterni. Quando la tecnologia allontana l’uomo dal benessere, l’innovazione sta nella riscoperta della tradizione.

 


© Immagini Elemental/Alejandro Aravena