È sempre facile saltare sul carro del vincitore e comodo navigare sui flutti del liquido contenuto su di un vaso appena rovesciato e l’articolo su Alejandro Aravena che abbiamo pubblicato in occasione della sua vittoria può sembrare il tentativo di cavalcare un fenomeno, con i suoi toni entusiastici.

Non diversamente hanno fatto molti altri sul verso opposto negli ultimi giorni, in Italia come altrove; ma è bello quando si crea un dibattito sul valore di un architetto, e i toni si scaldano parlando di quanto un giudizio di piacere possa essere più o meno condiviso; mi pare però che questo non sia esattamente il caso, o meglio, la polemica c’è, ma mi pare sterile e un po’ ingenua nei suoi termini.

Una piccola premessa doverosa alla mia nota: il Pritzker è un premio, come il Nobel, come l’Oscar o il Golden Globe o il Pulitzer. In quanto premio esiste non tanto per elogiare il migliore in assoluto, ma per imprimere una direzione ad un determinato fenomeno: Oscar e Golden Globe raramente nella storia sono stati dati per gli stessi motivi agli stessi film, anzi, vengono spartiti così da dividere i meriti che un film può sfoggiare per sfondare il botteghino. Lo stesso Nobel per la pace premia, esplicito nel caso del 2009, quello che ci si aspetta faccia qualcosa di buono. Non c’è da lamentarsi quindi se un premio all’architettura viene dato (cosa che traspare dal giudizio della giuria) per indirizzare una generazione:

“The younger generation of architects and designers who are looking for opportunities to affect change, can learn from the way Alejandro Aravena takes on multiple roles instead of the singular position of a designer to facilitate a housing project, and by doing so, discovers that such opportunities may be created by architects themselves.”

Grazie a Facebook, al solito sorgente a cui si abbeverano gli istinti più polemici in noi, ho avuto l’opportunità di leggere le critiche che vengono mosse a questa vittoria. Alcune polemiche si muovono sul filone del “è stato un giurato, sicuramente è stato raccomandato”, e queste vanno liquidate rapidamente: vere o false che siano, sono sterili al fine di un dibattito o almeno alla crescita del senso critico, e forse è meglio lasciarle per i salottini radical-chic del giornalismo scandalistico, fra la separazione imminente di Belen Rodriguez e il TotoMorto 2016 (letteralmente fra parentesi: io punto tutto su Pippo Baudo).

Altre critiche, quelle belle, si muovono sullo stile poco “sperimentale” delle sue architetture e sul fatto che sia un architetto mediocre e un buon comunicatore, capace di vendersi in sala stampa o tramite comunicati. Se questo è il modo in cui la notizia è stata accolta non stupisce che gli Italiani l’ambito premio lo vedano col binocolo. Aravena, pur non essendo eccessivamente “spinto”, con il suo “do tank” sdogana e rende politically correct una nuova visione dell’architettura che a quanto pare il mondo accademico rifiuta (un po’ come ha sempre mal digerito l’idea che un ingegnere potesse costruire, si veda Frei Otto e la sua beffa del Pritzker postumo, o Buckminster Fuller).

I soldi cominciano a scarseggiare, il modello virtuoso tayloristico, scaduto fra l’80–90, ha esaurito la sua coda di influsso positivo e fa sentire pienamente i suoi effetti nefasti nelle continue crisi economiche locali e nella morte dei welfare state. Il modello architettonico è in crisi e la disciplina, con la sua filosofia artistica connessa, sta vivendo una fase di cambiamento notevole, spinta dalla rapidità delle informazioni e dagli sviluppi della tecnica che permettono di realizzare quasi tutto in qualsiasi dimensione in breve tempo partendo dal nulla. In molti stati gli apparati burocratici si stanno snellendo per far fronte a questo e entrano nuove leggi in vigore che cambiano il modo di concepire l’abitare (in Italia no, ovviamente, stiamo ancora cercando di capire cosa siano le energie rinnovabili, figuriamoci se mai arriveremo a pensare che lo zoning sia inutile o che forse abbiamo tutti il diritto di farci casa nostra con le nostre mani senza implicare una ditta edile e spendere un capitale). In architettura sta nascendo l’idea che un modo diverso di fare non sia solo possibile ma auspicabile.

L’architettura è un’arte fintanto che riesce a comunicare in modo intimo all’uomo. Comunica però non soltanto attraverso atteggiamenti plastici di ritmo e composizione, ma anche attraverso il soddisfacimento di determinate esigenze e bisogni umani, come il vivere bene, o il non essere un gravoso peso che ti condiziona tutta la vita, la possibilità di espandere gli spazi e viverli al meglio. E come amplificate dall’etere nascono le Enciclopedie Open Source e i Creative Commons, così sta nascendo un’architettura Open Source aperta all’utente, malleabile, che riesce ad attribuire un valore aggiunto all’architettura, nella sua piena disponibilità e libertà.

Alejandro Aravena, trovandosi in alcune sue commesse a lavorare in contesti disagiati e in ristrettezze economiche, si è appoggiato proprio a questi meccanismi di nuova architettura: fare, non pensare; pensare è il compito di chi andrà a usare quegli spazi, il fare che deve essere sostenuto e aiutato perché non tutti hanno le conoscenze. L’architetto è un direttore di orchestra, capace di creare una rigida partitura e un bordone di accompagnamento su una scala musicale per dare la libertà ai musicisti di dare al suono l’enfasi che vogliono e realizzare quello che più si sentono affine.

In tante critiche leggo più l’incapacità di capire questo fenomeno non passeggero che un reale giudizio sul valore. A proposito si parla di artisticità mediocre, di ricerca assente, di composizione da scolaretto e non si rende conto che la ricerca (per quanto non innovativa, sono dieci anni che viene condotta da tutte le parti del mondo) riguarda la progettazione di spazi autogestiti, autocostruiti e diretti ma non imposti: Aravena ha realizzato in alcuni suoi interventi una metà casa perfettamente funzionante, e a mio parere opinabile pure bella, e ha poi dato le strutture per continuare ed adattare la costruzione, ha lasciato le travi dei solai o il vuoto all’interno della muratura. Tanti ricercatori nel campo si sono spinti oltre, ma forse sono troppo eretici per essere digeriti da un pubblico e da un’intera cultura accademica, il Cileno era il più digeribile e comprensibile, facile e pieno di motti di impatto, con una personalità e un phisique du role caratteristici, e per questo ha vinto: per spingere l’architettura verso un’altra direzione.

Forse mi sono sbagliato allora, non ho letto critiche, altrimenti non avrei scritto questa lunga nota a margine, forse ho solo letto cecità e paura. L’incapacità di vedere un po’ più in là nel tempo e di aprire gli occhi a fronte di evidenze sociali e tecnologiche e la paura che l’architettura diventi sempre di più uno spazio per gli umani e meno per accumulare denaro. O forse sto solo leggendo me stesso, la parte ragionevole di me che odio, e che vuole parlare e raccontare i suoi fantasmi.

Per fortuna, e buona pace, l’architettura dovrà essere sempre e indiscutibilmente bella, qualunque cosa questa parola voglia dire.


© immagine di copertina ELEMENTAL // Villa Verde — Constitución, Chile