Ci sono degli stretti legami fra architettura e videogiochi, non soltanto nel fatto stesso che dovrà pur esistere un progetto e un architetto dietro le magnifiche strutture che vediamo sullo schermo nelle avventure a più impatto grafico, ma nell’esistenza stessa dell’architettura e le sensazioni e le storie che essa permette di generare e far provare all’utente.
L’esigenza di una narrazione all’interno di un videogioco è posteriore alla sua nascita. Nel 1958 William Higinbotham creò un gioco chiamato Tennis for Two per intrattenere i visitatori del Brookhaven National Laboratory di New York (un centro di sperimentazione sul nucleare), impiantato su una macchina complessa e costosa. Piano piano negli anni ’60 e ’70 cominciarono a diffondersi i primi videogiochi basati su schemi semplici, con una trama semplice e scenografie bidimensionali che al massimo differenziavano asteroidi da navi nemiche. Fra il 1977 e il 1979 da Tim Anderson, Marc Blank, Bruce Daniels e Dave Lebling, ricercatori del MIT, fu scritto Zork, uno dei dieci più importanti videogames della storia, e la trama iniziò a costituire un punto essenziale di qualsiasi intrattenimento videoludico. Nella sua particolarità Zork è il padre di ogni gioco di ruolo, solo che, a differenza di Zelda o altri titoli attuali, non ha grafica, se non un testo descrittivo con il quale interagire tramite comandi come “hit” o “north-west” per indicare al personaggio le azioni da compiersi. Però il passo per graficizzare la narrazione è adesso molto corto: da qua nasceranno le avventure grafiche come monkey island o i giochi di ruolo.
Ha origine quindi l’esigenza di uno spazio che sia narrante all’interno dei videogiochi. Nel virtuale non esistono limiti nella possibilità di creare gli spazi: mentre nei teatri per le scenografie sei limitato sia dalla struttura dell’edificio che dal budget umano ed economico, nel digitale l’unico ostacolo è la capacità delle componenti hardware e dei software, e al giorno d’oggi rimane poco che non si possa davvero fare.
L’architettura che viene progettata deve quindi divenire il mezzo attraverso cui la storia di fondo viene arricchita di dettagli. La storia è tappezzata di architetture concepite al solo fine di evocare: si pensi al parco di Bomarzo, o ai parchi ludici in generale, come Disneyland, dove ogni elemento è finto e fine a evocare nella mente dell’osservatore una storia fantastica o un mondo grottesco. Non c’era nulla di nuovo per lei, doveva essere solo fatto uno sforzo di astrazione e trasferire alcuni concetti al mondo digitale.
La disciplina che deriva è l’environmental storytelling, raccontare storie attraverso gli spazi, aggiungendo a questo delle qualità e degli elementi che posso essere interpretati dall’utente per interagire e aumentare il suo coinvolgimento. In questo, fondamentale caratteristica di ogni elemento che si va a definire è l’affordance. Con affordance si definisce la qualità fisica di un oggetto che suggerisce a un essere umano le azioni appropriate per manipolarlo: ad esempio la caraffa con il suo manico ci invita a inserire la mano nell’occhiello per semplificare il versamento dell’acqua con cui noi l’abbiamo riempita invitati dalla forma vuota e svasata. Tramite questa gli oggetti suggeriscono al giocatore le azioni da intraprendere per andare avanti nel gioco e la trama viene arricchita di particolari (un coltello per terra è l’oggetto di scena di un delitto). Negare l’affordance può portare alla creazione di fraintendimenti, utilizzati spesso per arricchire lo spazi di stimoli e di letture diverse.
Per le varie esigenze videoludiche esistono vari tipi di environmental storytelling:
- Evocativo. Un oggetto mi rimanda a un’altra storia separata. Un puma ed un orso vengono rapidamente collegati al Libro della Giungla ovunque essi si trovino.
- Attuativo. Gli elementi dello scenario non raccontano una storia, rimanendo come una piccola narrazione di sfondo.
- Embedded. Lo scenario con gli oggetti presenti fornisce degli indizi sulla trama, il giocatore ricostruisce quindi degli elementi accessori alla narrazione: in Bioshock, gioco del 2007 sviluppato dalla Irrational Games, gli episodi di rovina della città di Rapture suggerisce molto su ciò che è accaduto in città prima dell’arrivo del protagonista.
- Emergente. La narrazione prosegue secondo la specifica volontà dell’utente: nei simulatori della serie the Sims è il giocatore a stabilire chi fa cosa con chi.
Per creare una narrazione che vada oltre le parole è necessario strutturare lo spazio in modo che sia coinvolgente, e servono quindi dei principi alla progettazione. Questi possono benissimo essere presi in prestito dall’analisi della città svolta da Kevin Lynch nel suo L’immagine della città. È necessario che gli oggetti abbiano un’identità riconoscibile che permetta di essere distinta dagli altri elementi, una struttura che implica delle relazioni fra gli elementi stessi e, infine, un significato, che dia agli oggetti una loro utilità. Lo spazio deve essere coerente, e omogeneo, così che la sua fruizione non sia frustata e anche le ramificazioni di questo devono essere lineari in modo tale da non generare ambiguità di fondo. E poi ci si muove secondo i soliti elementi: percorsi; nodi; riferimenti.
Per costruire lo spazio di un videogioco i principi della progettazione architettonica sono sempre validi; le meccaniche della progettazione dell’ambiente virtuale ci forniscono alcuni spunti, e ci rendono più consapevoli di come anche nel mondo fisico, l’architettura sia un enorme fonte di storie e suggestioni, capace di evocare, con semplici simboli meditati, un universo narrativo ricco e universalmente riconosciuto dall’osservatore.
Per approfondimenti sullo storytelling e i videogiochi www.maggese-games.com.
All’interno l’articolo The image of a game space del 22/10/2015, con il riassunto dei temi trattati nel workshop di Dario D’Ambra all’Internet Festival.