Svizzero l’uno, inglese il secondo, quasi coetanei ed entrambi scomparsi nel 2003, Lucius Burckhardt e Cedric Price sono noti per essere stati tra i più visionari studiosi del secolo; Burckhardt fu economista politico e sociologo, storico dell’arte e teorico di pianificazione urbana, mentre il collega architetto. Il loro lavoro, esposto con una mostra in continuo mutamento durante la 14a Biennale di Architettura nel padiglione Svizzero, è senza dubbio uno dei più influenti per architetti ed artisti contemporanei come Bernard Tschumi, Rem Koolhaas, Renzo Piano, Richard Rogers, Gianfranco Franchini [1] e Rachel Whiteread.

Il tema fondamentale alla base della ricerca sia architettonica che sociologica ed economica dei due fu il movimento, sintetizzando e restando ben consapevoli che non è possibile certo racchiudere in ciò tutto un pensiero: il movimento di persone, ideali e conoscenze è forza generatrice di flussi che vanno a contrapporsi quella che è da sempre la concezione statica e didascalica della storia nei sui vari campi di studio. Partendo infatti dalla consapevolezza della necessità diffusa di definire, e con ciò cristallizzare quelle che sono invece realtà mutevoli, i Nostri si impegnano del costruire un approccio che rifletta l’estrema dinamicità della società moderna: questa, pensata come un corso d’acqua che scorre liberamente nel suo letto, diventa un triste riflesso della sua vitalità che per essere descritta e studiata viene confinata tra le pareti di una provetta. Manuel Castells, nel suo “Informational City” affronta questo tema nell’economia di un discorso sull’evoluzione dei mercati: fa presente che lo spazio ad oggi si caratterizza non più come un insieme di posti fisici, ma come un insieme di flussi; rispecchiando la quotidiana e facilitata capacità di spostarsi in breve tempo su lunghe distanze, l’Autore spagnolo ci convince del fatto che bisogni, necessità, idee e proposte non facciano più parte di luoghi specifici, ma siano irrimediabilmente una proprietà della ‘città mondiale’, dato che ubiquo è in effetti lo stesso cittadino di questa città. [2]

La dimensione temporale in architettura prende allora il sopravvento sulla dimensione materiale e formalmente immanente: se non è la forma statica quella che può aiutare a descrivere la società, e progettare per essa, è forse una realtà in movimento la chiave di volta che sorregge un nuovo atteggiamento verso il pensare l’architettura, e di conseguenza il fare.

Questo atteggiamento si legge chiaramente nelle posizioni innovative e utopistiche per l’epoca riguardo l’educazione, sia dal punto di vista della scienza dell’educare, che delle infrastrutture ad essa dedicate. Prendendo in considerazione uno dei più importanti progetti in questo ambito teorizzato da Price negli anni ’60, la Thinkbelt dello Staffordshire in Inghilterra, è possibile capire quale sia la potenza innovativa e creativa di questo Architetto.

Price propose un ambizioso progetto di riutilizzo delle linee ferroviarie e delle infrastrutture di servizio all’industrie di ceramiche, ormai in disuso da anni. Lungo queste linee, che si diramano su un’area triangolare di circa 100 miglia quadrate, si sarebbero dovuti trovare punti di connessione con altre infrastrutture di collegamento aereo, ferrato e su strada che a loro volta avrebbero connesso la zona con il resto del paese; gli spazi industriali che sorgono lungo questo triangolo sarebbero stati riconvertite a seconda degli usi richiesti: oltre a istituti di istruzione sarebbero sorte strutture per ospitare studenti, insegnanti e staff. Le persone, in continuo spostamento tra un polo all’altro, avrebbe addirittura avuto la possibilità di lavorare e studiare e seguire lezioni sui treni stessi. Da questa dinamicità era conseguenza naturale la critica verso le infrastrutture “arroccate” dell’istruzione contemporanea. Price stesso scrisse nel 70: “While students are at present one of the most mobile social groups of technologically advanced societies, the nature of their own particular production plants — schools, colleges and universities, is static, introspective, parochial, inflexible and not very useful”. La proposta fu quella invece di realizzare residenze e spazi in moduli facilmente trasportabili come container, tanto quindi da rendere dinamico non solo il flusso di persone, ma anche degli spazi stessi.

Lo stesso atteggiamento si ritrova in scala architettonica nel progetto, mai realizzato, del Fun Palace prima accennato: la regista di teatro Joan Littewood commissiona a Price il progetto di un teatro sperimentale, che come richiesta fondamentale aveva la flessibilità nell’ospitare eventi di ogni genere. Affiancato da colleghi per la parte strutturale e ingegneristica, Price progetta un edificio di forma rettangolare, di circa 28.000 metri quadrati, definito da cinque file di quindici torri metalliche che sostengono la struttura di copertura e le gru; queste erano necessarie per spostare i vari elementi che poi sarebbe andati a definire gli spazi richiesti di volta in volta dai particolari spettacoli ed eventi programmati, configurando pressoché infinite possibilità spaziali e volumetriche: muri, soffitti, camminamenti e pavimenti potevano essere posizionati e accostati in maniera libera, implementati da un sofisticato sistema di barriere al vapore, barriere di aria calda, piante che disperdono umidità, divisori orizzontali e verticali. Banham nota che “il gioco delle variazioni proposto dal gruppo di progettazione di Fun Palace, supera in modo spettacolare quello che Constant ha previsto per la sua New Babylon, dove i pavimenti, per lo meno, sono fissi, anche se tutto il resto è amovibile. Fun Palace è concepito come un volume flessibile in cui i tetti, i muri, i pavimenti e i servizi possono essere riorganizzati a volontà, con pochissimi vincoli in ciascuna delle tre dimensioni”. [3]

 

Peter Blake, in un saggio contenuto nel libro “L’architettura degli Anni Settanta”, “Le nuove forze”, scriveva ironicamente «Conosciamo tutti i progetti “visionari” proposti, in varie occasioni, da gente come Cedric Price e altri Archigrammisti. Ora tutti sanno che le loro idee sono completamente assurde. Come può un individuo sensato proporre edifici mobili o città mobili? Tutti sanno che proposte simili rasentano la follia; ma qualcuno ha dimenticato di dirlo a quei pazzi patentati di capo Kennedy, e così quelli sono andati dritti per la loro strada e hanno costruito enormi strutture mobili, senza sapere che quello che stavano facendo non si poteva fare.»[4].

Il peso dello sviluppo della della tecnologia si manifesta così prepotentemente in ogni aspetto della società moderna, che nel giro di pochi decenni il modo di interfacciarsi dell’uomo con l’ambiente è cambiato totalmente. L’accesso ad internet in ogni momento, la continua connessione tra persone e cose, l’aumento continuo delle capacità e della facilità dei trasporti stanno velocemente trasportando le nostre generazioni in un mondo iper-connesso, un mondo di flussi di persone ed informazioni che danno sempre più forza alle utopie priciane: non sembra più così assurdo lavorare in un viaggio in treno, fare studi scientifici in una stazione orbitante a 27.600 km/h o su di una nave di esplorazione e ricerca nella Baia di Ross.

Anche se è lontana dall’essere sterile ed esaurita, la ricerca architettonica sugli “spazi vincolati al suolo” dovrebbe essere presto affiancata da uno studio degli spazi che al contrario necessitano di esser mobili per essere funzionanti e funzionali, spazi in grado di sapersi adattare a tutte quelle situazioni che il loro ciclo di vita le porterà ad affrontare.


[1] L. Prestinenza Puglisi, 6.1.15: Fun Palace, http://presstletter.com/2012/08/6-1-15-fun-palace/
[2] M. Castells, The Informational City: Information Technology, Economic Restructuring, and the Urban Regional Process. Oxford, UK; Cambridge, MA, Blackwell, 1989
[3] N. Whiteley, Reyner Banham: Historian of the Immediate Future, MIT Press, 2003
[4] J. M. Richards, P. Blake, G. De Carlo: L’architettura degli anni settanta, Milano, Il Saggiatore, 1973, pp. 71–72
R. De Fusco: Storia dell’architettura contemporanea, Laterza, 1991