Il 24 e il 25 maggio abbiamo visitato in anteprima la XVI Mostra internazionale di Architettura, una delle più prestigiose rassegne di architettura del mondo. Vi raccontiamo nel dettaglio le nostre opinioni su alcuni dei 71 padiglioni nazionali che potrete visitare. In questa puntata, l’inattesa sorpresa del padiglione americano.
“In a time when the expansion of the United States–Mexico border wall looms over more nuanced discourses on national citizenship, it is urgent for architects and designers to envision what it means to be a citizen today.”[1]
In risposta ai padiglioni che parlano delle bellezze del proprio paese di appartenenza, alle timide affermazioni di #freespace dei paesi che analizzano come l’architettura debba restituire spazio alle persone, o trovare i punti di contatto fra le genti, il verde-fluo, aggressivo e così provocatorio, dello spazio curato da Niall Atkinson, Ann Lui e Mimi Zeiger, dimostra come ci sia ancora molto da raccontare, da chiedersi e da fare. Commissionato dall’Università e dalla Scuola dell’Art Institute di Chicago, riporta l’arte e l’architettura al centro del dibattito sull’identità dell’individuo, con tutti i paradossi che la definizione di “cittadino” e i suoi requisiti comporta: questione di diritti, responsabilità, attaccamento al costruito?
Avviene tutto silenziosamente, fra le stanze, analizzando frammenti di culture, di storie, di progetti di salvaguardia e di considerazioni geografiche, fino alla fantascienza di un’improbabile comics, dove degli animali vengono spediti nello spazio e mille anni dopo ritornano per riprendere la loro terra. La disamina è svolta attraverso sette livelli deduttivi di una spirale dimensionale: Citizen, Civitas, Region, Nation, Globe, Network e Cosmos.
Il Citizen è la soglia dell’individualità, le responsabilità e i diritti, e la dimensione del corpo che ci separa: nel cortile del padiglione, dentro lo spazio ristretto, di un carro-tenda , due artiste afro-americane, Amanda Williams + Andres L. Hernandez, mostrano l’abisso che ci separa, svelando molte ipocrisie della società contemporanei, e le tradizioni che hanno dovuto abbandonare solo per essere cittadini, mentre ancora però il loro corpo è visto “diversamente”.
E poi all’interno della struttura si affronta con la Civitas la questione storica della città di Memphis nel Tennessee, dove nel 2017 due monumenti confederati sono stati rimossi, e le pietre della banchina portate all’interno della biennale, per chiederci quale sia il valore del monumento al giorno d’oggi, domanda ricorrente dal Breviario di Architettura di Sigfried Giedion:
1— i monumenti sono petre miliari […] costituiscono un nesso fra passato e il futuro.
2— […] i monumenti devono soddisfare l’eterna aspirazione del popolo a tradurre in simboli la sua energia collettiva. [2]
e ancora oggi senza una definitiva risposta, se non un pensiero di unità e di spirito comune.
E poi Region e SCAPE, il progetto di lotta contro l’erosione, a cui segue nella stanza a fianco il lungo arazzo di MEXUS, sigla generata dall’unione di Mexico e USA, ipotetico territorio di cittadinanza di una cultura mista, reale e concreta e piena di problematicità oltre la semplice violenza e un riconoscimento amministrativo, oltre i confini, per porsi le domande sul riconoscimento della cittadinanza e di Nation.
Globe e Network espandono la scala a tutto il mondo e alla rete, spazio infinito, in cui forse il concetto di cittadinanza si perde, con quello di identità, trasformandoci in serie di IP per localizzarci e persone digitali.
E si finisce in un futuro tragico, quasi degno di Noè, con Cosmos, dove la cittadinanza è un diritto di tutti, e animali spediti nello spazio tornano dopo millenni, iperevoluti, dopo aver sviluppato una coscienza critica, a reclamare ciò che è loro.
Chi scrive ritiene che compito dell’architettura sia quello di fare politica, di porre delle domande, risolvere delle questioni, accomunare le genti e non dividerle. Il padiglione americano, con le sue storie, tratte da mille casi e mille fonti diverse, è uno dei più forti di questa edizione della Biennale, uno dei casi più irruenti, provocanti, di quelli che più ti pongono domande sul futuro dell’architettura, sulla teoria e sulla professione di una pratica che guarda sempre di più a sé. Un padiglione che ci piace. Voto: 10