Nella notte tra il 14 e il 15 Gennaio del 1968 la città di Gibellina viene rasa al suolo dal Terremoto del Belice, che colpisce una buona parte della Sicilia occidentale. A fronte della distruzione causata dal sisma, che riduce in macerie la maggior parte del centro abitato, la strategia scelta è quella di edificare una nuova città nei pressi dell’autostrada in costruzione, a quasi venti chilometri di distanza, con l’intenzione di massimizzare una nuova crescita economica. I resti della vecchia Gibellina vengono affidati all’artista Alberto Burri, che concepisce un monumento funebre a scala urbana, ricoprendo le macerie con uno strato di cemento e cristallizzando l’impronta della città vecchia in un cretto. Lo studio di Gibellina Nuova viene invece affidato a Marcello Fabbri, che, ispirato dai modelli anglosassoni delle new town e dai dibattiti contemporanei sulle sperimentazioni urbanistiche, disegna un impianto fortemente dilatato, volgarmente denominato “ad ali di farfalla”, la cui estensione, nonostante sia destinata allo stesso numero di abitanti, è pari a circa dieci volte la precedente.
Gli spazi vengono dilatati, le abitazioni distanziate al fine di evitare, in caso di collasso, il coinvolgimento degli edifici adiacenti; le strade sono progettate in modo da consentire un comodo passaggio ai mezzi di soccorso. Infine, una serie di interventi artistico-architettonici vengono apportati diffusamente al tessuto urbano, opere che, se decontestualizzate, sono capaci di configurarsi come oggetti sperimentalmente accattivanti ma che urbanisticamente si riconducono a manufatti slegati tra loro e privi di un qualsivoglia carattere di appartenenza al luogo. Si tratta di corpi estranei, galleggianti nel contesto in cui sono collocati.
Lo sforzo compiuto si rivela inefficace e col tempo la strategia di ricostruzione mostra di contenere così tante criticità da innescare un lento processo di abbandono del centro cittadino. Attualmente, infatti, a Gibellina circa il 30% delle abitazioni sono seconde case, mentre il 20% sono disabitate.
Quello designato come centro cittadino assume quindi l’aspetto di una periferia disabitata, le cui piazze principali si sono trasformate in campi da calcetto e i larghi marciapiedi per le passeggiate degli abitanti sono divenuti strade carrabili.
La disattenzione principale resta quella del tema della luce solare, cioè di come sia stato ignorato che la densità urbana del vecchio impianto avrebbe determinato continue zone d’ombra dove poter trovare riparo nei mesi più caldi. Le nuove abitazioni distaccate hanno determinato una frammentazione dell’ombra e gli stessi luoghi progettati specificamente per le attività pubbliche si sono rivelati privi di ripari adeguati dalla luce solare e, pertanto, disincentivano l’instaurarsi di relazioni sociali tra gli abitanti.
In seguito al sisma che ha colpito la Valle del Belice ciò che perdura della vecchia città è la memoria. La ricostruzione, infatti, si è mostrata incapace di leggere il senso profondo di Gibellina e il vero patrimonio culturale che dovrebbe essere salvaguardato, generando di fatto una città fantasma e priva del carattere specifico che le apparteneva.