Carmine Lanza


Napoli come città non si presta ad una lettura unitaria e univoca, ma si compone di parti, di frammenti che hanno acquisito nel tempo un carattere autonomo, indipendente, che nella città si compiono, e completano, quasi come un mosaico, il disegno della città stessa.

La parte è la periferia orientale. Tale area, vastissima, comincia dalla fine della città consolidata (piazza Garibaldi) e termina, quasi senza soluzione di continuità, con quelli che furono Casali di Ponticelli e Barra. La lettura di questa zona è trasversale nel tempo: infatti ha avuto nella storia, come tutte le altre parti, una sua personale evoluzione, forse la più ricca di tutte; si ricorda che nei tempi più remoti questa zona era una palude, poi bonificata per permettere l’uso del suolo per l’agricoltura e infine, nei primi anni del Novecento, venne realizzato un polo industriale. Oggi si può definire questa area ampiamente dismessa, e essere concordi che qualcosa non abbia funzionato.

Il progetto di architettura interviene da sempre per rispondere a delle domande, attraverso delle scelte. La domanda a cui cerca di rispondere il progetto esposto è la seguente:

È possibile avviare un processo rigenerativo attraverso una sorta di archeologia delle tracce preesistenti, il ripristino del suolo bonificato sul quale mettere in evidenza gli edifici di età industriale che hanno maggior pregio architettonico, e da questi costruire una nuova realtà architettonica che ragioni per architetture organizzate attorno ad un grande spazio pubblico a carattere rappresentativo?

Come strategia l’intervento prende a riferimento un isolato tipo, una parte determinata e finita dell’intera periferia orientale della città, un elemento del tutto. Questo perché l’ipotesi per cui riqualificare l’intera periferia attraverso un progetto unitario, è un’utopia per un’ottica contemporanea. La visione per parti della città di Napoli, divisa in quartieri e strutture molto diverse fra loro, impone una analisi frammentata anche della singola emergenza che possiede, dunque, diverse caratteristiche morfologiche e costituenti.

Il processo comincia con una scelta ben precisa, demolire gli edifici industriali che non hanno alcun pregio architettonico, ovvero quegli edifici che non hanno la capacità di sopportare, nel nuovo impianto, il peso del ruolo di archeologia industriale.
La scelta di conservare i due edifici, l’ex magazzino Pirelli e l’edificio sede del contact center dell’Enel, non è frutto di un arbitrario giudizio di valore bensì il saper riconoscere la differenza tra un edificio industriale anonimo ed uno d’autore. Il magazzino della filiale Pirelli “gomme e cavi” di Napoli, disegnato dall’ing. Giuseppe Valtolina, che fu impegnato anche nell’esecuzione del più conosciuto “Pirellone” meneghino, è sorto nel 1956 e si presenta come una piastra sulla quale è appoggiato un parallelepipedo pressoché cubico. Alla piastra era affidata la funzione di uffici e parte del deposito che culminava all’interno del cubo. Questo edificio ha seguito l’ascesa e la caduta dell’intera area industriale, infatti da simbolo potente di un’economia forte si è trasformato nel tempo nel pallido ricordo di quella potenza, diventando dimora per senza tetti, lasciando della Pirelli solo il ricordo. Per quanto riguarda il contact center dell’Enel, questo si presenta come un edificio non convenzionale: infatti sembrerebbe a prima vista un edificio cittadino, nel suo disegno e nei suoi materiali, se non fosse per la sua mole imponente e inconsueta.

La seconda azione è quella di eliminare completamente il suolo impermeabilizzato e in questo permettere la seconda archeologia, ovvero quella delle trame del suolo pre-industriale: le strade interpoderali, i rivi e la campagna. In questa fase del processo si costruisce l’idea di isolato, individuando lo spazio pubblico come principio fondatore. Questo va a collocarsi tra i due edifici di epoca industriale ritenuti di maggior pregio architettonico, la cui tensione si presta come un recinto all’interno del quale costruire lo spazio pubblico. Nel volere in questa fase richiamare archetipi storici della cultura partenopea viene trovato come riferimento di spazio pubblico il foro di Pompei fra le più famose opere di archeologia al mondo, la cui storia e struttura riecheggia nel destino di ogni città. Attraverso il suo ridisegno, specchiato secondo l’asse longitudinale, possiamo ricavare delle geometrie e delle misure valide a confrontarsi con lo spazio pubblico costruito secondo misure tradizionali e storiche, appartenenti alla cultura del luogo e quindi umane. A questo segue la sua composizione, ovvero un processo che ci permette di prendere alcuni elementi del Foro e porli nella nuova ottica di spazio pubblico. Ad esempio il granaio, che viene ripetuto due volte, divenendo quasi una stoà, la Basilica, il tempio di Giove.

È progetto di architettura che conclude infine il processo di progettazione ed è chiamato a rispondere nei dettagli alla domanda iniziale. L’architettura deriva quindi da un riferimento, l’archetipo che permette un linguaggio unico con cui tutti i progetti futuri possono comunicare senza dissonanze. Adottando un riferimento culturalmente storicizzato e radicato come risposta ai problemi delle città contemporanea, si includono quei piccoli fabbricati, quelle stanze di campagna, quelle unità, così semplici e così disseminate lungo i campi da rappresentare un’archeologia vivente nel territorio. Questo elemento, questa unità elementare possiede tutte le caratteristiche che sono state espresse all’interno dei sei nuovi edifici proposti nel progetto. Queste architetture si palesano come una stanza murata con piccole aperture, piena mentre si apre all’esterno, con una pergola leggera su un lato. Al muro viene affidato lo spazio cavo dell’interno propriamente detto, lo spazio dell’abitare, mentre agli epigoni del sistema trilitico lo spazio aperto destinato al riparo, che permette di godere dell’esterno naturale pur essendo coperti.

L’obiettivo finale dell’intero lavoro consiste nel voler riuscire a trasformare un sito indistinto, dismesso, periferico, a volte brutto all’occhio comune, in una nuova realtà: un luogo nel quale il nuovo si fonda su quello che è stato, sul retaggio culturale, prendendo le caratteristiche tipiche e le soluzioni architettoniche e spaziali tipiche di questo.

Nei prossimi anni i futuri progettisti dovranno fronteggiare una sfida molto difficile, quella di riuscire a riscattare la condizione delle periferie delle proprie città. Tramite questo progetto si cerca di dare quindi un punto di vista, un metodo, che si rivolga alla città di Napoli dopo averne fornito una lettura per parti, un metodo di analisi delle particolarità e soluzione rispettosa della cultura e del contesto. Solo dopo la lettura della città si può pensare di intervenire in questa, senza commetteremo ancora gli errori degli ultimi cinquanta anni, che hanno visto una vasta area, polo industriale e prima campo agricolo, diventare un residuo abbandonato.