Mancanza, censura o reticenza, la lacuna in letteratura rappresenta l’omissione intenzionale, l’arte del “non detto” in cui il testo acquisisce la sua valenza in virtù della qualità dei vuoti che inducono il lettore a un piacevole sforzo di riempimento e di partecipazione all’opera. In architettura, invece, questo rapporto è ribaltato: di fronte a una lacuna ci si interroga riguardo al persistere dell’utilitas del manufatto. Il termine acquisisce così un’accezione negativa, una mancanza alla quale sopperire per permettere una lettura omogenea e coerente del costruito.
Durante il Rinascimento, la tendenza a leggere la lacuna in modo “artistico” della lacuna ha determinato l’operato degli architetti nelle loro spesso arbitrarie ristrutturazioni ed interventi. Se è vero, infatti, che fu in questo periodo che si ebbe una vera e propria rivoluzione umanistica e una ricerca e documentazione preziosissima dell’antichità classica, è altrettanto evidente come fosse la sensibilità individuale (dell’architetto o del committente) a determinare che cosa fosse da valorizzare e in che modo, e che cosa da distruggere per far spazio al nuovo. Scrive a tal proposito Carlo Ceschi, uno dei maggiori teorici del restauro italiano: “Ma quando si voleva far opera nuova non si esitava a sacrificare un edificio preesistente come fece Pio II […] per fare abbattere nel 1459 la chiesa romanica di S. Maria a Pienza e sostituirla col nuovo Duomo. […] L’umanesimo si fermava evidentemente all’apprezzamento dell’antichità classica e non riusciva ad estenderlo alle architetture dei secoli posteriori”. La strategia per colmare la lacuna era sempre dipendente unicamente dalla prepotente personalità dell’architetto, che inseriva l’oggetto del restauro nella propria visione personale: questo è quanto avvenuto per la cupola del Brunelleschi o per la facciata di Santa Maria Novella dell’Alberti.
L’evoluzione dello studio dell’antichità e una progressiva consapevolezza dell’argomento portarono successivamente ai nuovi e interessanti modi operandi neoclassici, che determinarono l’abbandono dell’approccio legato alla discrezionalità personale, in favore del massimo rispetto per l’integrità del testo figurativo. Emblematico in questo senso il restauro dell’arco di Tito, iniziato da Raffaele Stern nel 1818 e completato da Giuseppe Valadier. Con un meticoloso lavoro di ricostruzione per anastilosi, ove possibile, e con il completamento in materiale diverso dall’originale con finiture semplificate, non solo si colmò la lacuna ma allo stesso tempo se ne riuscì a conservare volontariamente la traccia in un esempio di restauro magistrale.
Proprie dell’Ottocento sono due scuole di pensiero: quella di Eugène Viollet-Le-Duc, dalla cui sensibilità e preparazione di storico sono scaturiti i completamenti “in stile” e le ricostruzioni di moltissime architetture medievali in Francia, e quella dell’inglese John Ruskin, che condannava, invece, gli interventi del collega, sostenendo il valore artistico e romantico dei segni del tempo sui monumenti e sulle rovine. Nonostante entrambi abbiano influenzato in modo decisivo il pensiero sull’argomento per i secoli a venire, il pensiero di Ruskin ha rappresentato un modo del tutto nuovo, seppur radicale e teorico, di approcciarsi al tema della lacuna: non c’è alcuna necessità di recuperare, completare, far rivivere un oggetto di un’altra epoca che ha già compiuto il suo ciclo vitale.
Di pari passo con l’evolversi del pensiero critico sul restauro, il modo di affrontare la lacuna in senso artistico è ancora oggi uno dei più importanti aspetti di discrezionalità nell’operare un restauro architettonico, benché si sia più volte tentato di codificarne i principi cardine in modo univoco e scientifico.
Se con gli otto punti espressi da Camillo Boito nel 1883, poi confluiti nella “Carta di Atene” del 1931, si era optato per il definitivo rifiuto dei completamenti, eccezion fatta per quelli per anastilosi, il XX secolo ha nuovamente mescolato le carte. Sono stati introdotti due principi: quello del “minimo intervento” e quello della “riconoscibilità”, che hanno stabilito come nuovo obiettivo la conservazione dell’opera.
Parallelamente però si sono presentate occasioni in cui l’aspetto prevalente della lacuna da colmare è risultato di natura socio-psicologico, inteso cioè come la dolorosa mancanza di un elemento caratterizzante il proprio background culturale: si possono leggere in questo senso i restauri effettuati in seguito ai conflitti del XX secolo, in particolare a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. La ricostruzione di molti monumenti ha spesso seguito la via del “tale e quale”, metodologia che ha prevalso spesso per volontà popolare perché l’unica che, in condizioni di grave distruzione, riuscisse a riportare in vita i manufatti perduti — seppur riproduzioni senz’anima storica.
Di fronte a queste situazioni si sono moltiplicate le ricostruzioni e i completamenti, ognuno con approcci peculiari ma tutti accomunati dalla stessa volontà di riappropriarsi di un “pezzo di identità” andato perduto. Un valido esempio è la ricostruzione di alcuni ponti antichi, come quello ligneo di Bassano, risalente al 1569 ma già ricostruito due volte nel 1749 e nel 1821, che ha visto la sua terza replica, ancora fedele al disegno palladiano, dopo essere stato distrutto nel 1945. O ancora, il ponte fiorentino a Santa Trinità, ricostruito non solo con le pietre raccolte in Arno, ma anche con le tecniche delle maestranze cinquecentesche anziché con una struttura moderna successivamente rivestita, perché altrimenti il suo aspetto “non sarebbe stato lo stesso”.
In seguito si è sentito il bisogno di “riaffermare gli antichi principi”. Con nuove prese di coscienza nel campo della tutela dell’ambiente urbano, nel 1964 è stata stilata la Carta di Venezia: la consapevolezza della complessità delle esigenze in gioco non è stata, però, dimenticata. A questo proposito lo stesso Ceschi scrive:
“Le vicende che ho ricordate […] esulano evidentemente dall’ordinaria routine metodologica codificata nelle norme, nelle istruzioni e nelle carte del restauro. […] Ma la ricostruzione del patrimonio monumentale dopo la vicenda bellica è una pagina incancellabile e proprio perché eccezionale non poteva trascurarsi.”
Ciò che è importante sottolineare è che quando si parla di restauro di un’architettura o di un settore urbano, rispetto a quello dell’opera d’arte in generale, si aggiunge una fondamentale variabile: la funzione, la capacità dell’edificio o del brano di città di essere ancora utile al proprio scopo originario. L’utilitas della famosa triade vitruviana è spesso il punto di partenza del lungo percorso che ha portato teorici e tecnici delle varie epoche ad affrontare il tema della lacuna, producendo nei secoli una vastissima letteratura di settore e alimentando un fervente dibattito che può dirsi tutt’altro che concluso, e che qui abbiamo provato a sintetizzare. Di pari passo, recenti avvenimenti catastrofici hanno introdotto una nuova variabile nel complesso sistema di equilibri della materia: il simbolo. La lettura in chiave simbolica di alcune mancanze dovute ad eventi distruttivi, naturali o antropici, ha generato esempi innovativi e dalla forte valenza comunicativa che spingono a riflettere e aprono la strada verso nuovi approcci progettuali.