Premessa. Dal 3 al 6 di Marzo, dell’anno 2015, cinque amici hanno fatto un viaggio. È passato del tempo nel frattempo e i ricordi stanno sbiadendo neppure tanto lentamente, lasciando soltanto la consapevolezza di essere stati su un punto del planisfero europeo e di esserci arrivati in volo perché in macchina sarebbe stato alquanto difficile. Qualche immagine sparuta resta e riesco ancora a identificare l’occasione in cui sono state scattate delle foto. Piccoli e sparuti frammenti di conversazione di un continuo parlare rimangono nella mia testa e per immagini sto rivivendo il viaggio mentre cerco di scrivervene. La nostra meta, Porto, è una città complessa.

Sorge su numerose colline che si buttano nel fiume Douro. Ogni punta è un quartiere, su cui si regge un’identità ancora forte, sia dal punto di vista sociale che urbano. La parte “bella”, il Sé, con la cattedrale che domina sul vasto panorama insieme a Fernando Tavora; la notissima e commerciale Ribeira lungofiume; Miragaia piccola e scoscesa, fino a Matosinhos e l’Oceano grande e sconfinato che non immaginavo potesse essere così rumoroso a fronte di tutti i sentimenti che ha ispirato nella storia. La città è un agglomerato armonico e senziente di tante piccole unità che hanno deciso di restare e generare qualcosa di organizzato: qualcosa che fosse straordinario, oltre i semplici monumenti e le architetture contemporanee, oltre anche le strutture e i ricordi. Qualcosa che fosse fuori dall’ordinario in modo non chiaro, ma ben percepibile, con le vie sempre diverse, sempre in salita e quel modo unico di coniugare il passato e il futuro in un amalgama in continuo movimento, percorso da persone a cui solo una città non ordinaria come Porto potrebbe stare bene.

Il sole ci bacia il 4, il 5 e il 6. La città viene percorsa dal vento e il clima e mite. Vediamo tante cose di cui abbiamo già scritto articoli. Vediamo anche tante cose di cui non scriveremo niente:

Le cantine dove viene prodotto quel vino liquoroso dal nome ridondante: il Porto, con quelle belle terrazze verdi da cui si vede ogni cosa compresi i pavoni.

L’oceano.

La foce del Douro vista sotto il sole dall’alto.

E il profilo dei ponti dal basso.

Il museo della fotografia, una ex prigione.

Il cibo abbondante.

I quartieri di condomini e spazi verdi e le villette dei ricchi.

Anche questi meritano il loro spazio, perché, se non famosi, appartengono comunque alla città e con poche righe possono essere elencati facilmente, cercando di addurre motivazione alla visita di una delle città più ambite e lambite dalla nostra generazione.

Adesso seguiranno una serie di pensieri formulati il giorno 03–03 sulla città di Porto in Portogallo nella città di Porto, in Portogallo.

Tengo a precisare che sono visioni parziali e sconnesse di una giornata di nebbia, tanto da nascondere i cinquecento metri che ci separavano dal Douro nella loro interezza, rendendoci piacevoli spettatori dello sconforto comune di non percepire limiti alla propria vista.

Sono miraggi lacerati e lacunosi di una giornata di stanchezza, tanto da improvvisarci acrobati circensi per non inciampare sui gradini che definiscono gli isolati e finire ad essere elementi qualificativi di una pavimentazione qualunque.

Sono i ricordi deformati di una giornata di entusiasmi, tali da poter scalare l’equivalente del monte Amiata solo sui nostri talloni nell’arco della giornata e mangiare quantitativi notevoli di carne per compensare.

Sono le fantasie di una giornata estera, tanto da arrivare a fine giornata con a stento la percezione del mio nome, ma con ben fisse in mente le fermate del metro che nei giorni a seguire ci avrebbero portato alle innumerevoli mete che solo cercandole possiamo trovare.

Sono impressioni a tratti tendenziose, ma nella loro completezza cercano di delineare sinceramente quello che ho provato percependo lo spazio urbano come un’entità piuttosto che un accumulo di case. I testi sono scritti con quella arroganza che gli anni di ricerca nel campo dello straordinario e dell’alternativo portano necessariamente con sé e con la consapevolezza che, pur non fornendo nient’altro che uno sguardo sulla città, possano essere utili a non perdersi il meglio girando la testa convulsivamente a destra e a manca cercando di vedere tutto. Sono scritte allontanandosi dalle pasticcerie che riempiono la città, o dagli amici con cui viaggio ogni giorno, fermandomi su una panchina e scrivere quello che sentivo, senza fretta, aspettando che accadesse qualcosa, fosse questa la pioggia, l’affondamento di una barca di carta in una fontana, o l’arrivo di una persona cara con le buste della spesa.

_primo

Ho l’impressione che Porto parli, parli, senza dire nulla. Ho l’impressione che potrebbero parlare i suoi palazzi abbandonati se piuttosto gli si desse voce che preferire opere di fama e ammodernamenti da parte dei soliti tre.

_secondo

Questa città fa molto rumore di gabbiani. È un rumore costante e incessante: da sotto il ponte, dove le incomprensioni sono baci, alla piazza smembrata le cui rovine ancora sanguinano attraverso i vetri rotti, si sentono le macchine che non stanno mai ferme, i pullman ad orario continuato e le campane delle chiese che espongono i morti coprendoli con veli.

_terzo

Porto è una città mutevole e balzana; la bellezza delle magnolie in fiore presenti in ogni cortile, su ogni ciglio e nel taglio di intersezione fra strade, diviene l’agrume scagliato con violenza nel fosso dove abiti consunti appesi si lavano sotto un’incessante e fitta pioggia.

_quarto

Se è vero che per scendere bisogna prima salire, ed è così il viceversa, la ambigua città non si nasconde dietro la certezza che i miei talloni abbiano già troppo subito la gravità eccessiva dell’inclinazione e le punte dei calzini bagnate brucino per l’attrito: non vi è mai una vera salita o una vera discesa, ma solo la possibilità di uscire dal labirinto e non farvi più ritorno.