Questa testo è il frutto di due intensi incontri, avvenuti prima a Firenze poi a Pisa, tra Andrea Crudeli, Marta Gnesi e Riccardo Bartali con Massimo Carmassi. Le illustrazioni sono a cura di Chiara Bartali (@mim_who).
(AC,MG,RB) L’ultima volta che ci siamo incontrati ci ha parlato della città di Pisa con lo stesso spirito di un uomo innamorato, ma con le parole di un amore finito. Può descrivere i sentimenti che la legano a questa città dopo tutto questo tempo?
(MC) Molta nostalgia mista ad una forte delusione per quanto è accaduto e sta accadendo nella mia città. Sono arrivato a Pisa all’età di 9 anni da Marina, dove avevo passato la mia infanzia. Porta a Mare, dove ho vissuto fino all’età di 27 anni, era ancora quasi del tutto distrutta. Ho giocato tra le macerie e ho assistito alla sua ricostruzione. Di questo quartiere mi piaceva più di tutto il Fosso dei Navicelli dove la sera assistevo spesso l’arrivo del vaporetto che trainava una fila di barconi carichi fino al bordo di sabbia bianca, necessaria per la fabbricazione del cristallo per cui la Saint Gobain era famosa. Una volta l’ho visitata insieme al parroco per la benedizione pasquale, con molto spavento nel vedere gli immensi forni pieni di vetro fuso che emanavano un rumore terribile. Il fosso era la spina dorsale del quartiere, il paesaggio più importante, un’opera restaurata poco prima della guerra, che a me sembrava nuova come la darsena, rispetto alle case scalcinate dei contadini nella campagna fino a San Piero lungo la Via Livornese. Il fosso oggi è stato interrato fino alla svolta (come si chiamava allora).
Durante gli studi scolastici fino al diploma liceale ho avuto modo di conoscere e amare la città attraverso il disegno di molte sue parti, la mia passione, le letture della sua storia e soprattutto la scoperta della sua diversità rispetto a tutte le altre città toscane, nascosta dagli intonaci. La conquista fiorentina ai primi del ‘400 e il rinascimento ne avevano cancellato la bellezza gotica, rappresentata dalla singolare tipologia delle casetorre pisane che facevano da sponda alla dolce curva dell’Arno. Rispetto a Lucca, Siena, Firenze, queste case erano costituite da due muri paralleli di pietra e mattoni collegate tra loro sul lato minore verso il fiume da uno o due altissimi archi ogivali o a tutto sesto, non interrotti da travi o archi in muratura, ma solo dai solai ai vari piani. Il lato posteriore poteva essere simile oppure in muratura forata da finestre. Gli arconi erano attrezzati poi con ballatoi in legno sporgenti dalla facciata illustrati con molta precisione in tante pubblicazioni di Fabio Redi con disegni di Gabriele Berti dopo i rilievi del De Fleury nel secolo passato e del Pera dopo la guerra. I prospetti delle strade formati secondo questa tipologia davano alla città, soprattutto lungo il fiume, un aspetto del tutto singolare rispetto a qualunque altra città.
I rilievi realizzati durante il mio periodo di lavoro all’Ufficio Progetti del Comune hanno suggellato la mia passione per la città dotata già del complesso unico di architetture della “Piazza dei Miracoli” , e delle bianche Mura che la proteggevano.
L’esperienza principale che ha caratterizzato la sua attività professionale è stata quella dell’ufficio progetti del Comune di Pisa. Come valuta questa esperienza? Quale crede fosse la forza di questo organo pubblico? Pensa che questo strumento possa avere la stessa efficacia ai nostri giorni, considerando anche le questioni relative alla concorrenza?
Sono entrato al comune di Pisa nell’aprile del 1974 trovando due disegnatori nella mezza stanza di Palazzo Gambacorti divisa con l’ufficio strade dove abbiamo lavorato per un breve periodo. Al concorso d’ingresso avevano partecipato oltre a me solo 3 architetti e un ingegnere.
Ho cercato collaborazioni di impiegati del comune con diverse competenze, dall’applicato dattilografo geometra all’impiegato amministrativo appassionato di scultura del legno che si è trasformato rapidamente in un bravissimo plasticista ed altri geometri e diplomati alcuni dei quali sono diventati architetti grazie alle opportunità e facilitazioni fornite dall’ufficio e da una specifica legge. Dopo qualche tempo ci siamo spostati a Palazzo Cevoli, in Via San Martino, nelle “salette danesi” che, sebbene degradate, ci hanno consentito di lavorare in ambienti di adeguata ampiezza. Da allora l’ufficio ha preso il nome di “Ufficio Progetti”. In una foto del ’75, nel libro che documentava il nostro lavoro dal 1975 al 1985, figurano 7 persone compreso il sottoscritto, con l’esclusione purtroppo della Signora Andolfi entrata per concorso un mese dopo di me, diplomata all’accademia d’arte e grande disegnatrice. Solo più tardi si sono aggiunti altri impiegati con la legge per l’occupazione giovanile. In pochi anni da questo momento abbiamo progettato 4 cimiteri, 5 scuole, 2 centri sociali e le residenze di Cisanello. Abbiamo progettato il restauro di Palazzo Lanfranchi, di alcuni edifici in Via dell’occhio trasformati in alloggi per studenti, il restauro del Teatro Verdi, il progetto di ricostruzione del complesso di San Michele in Borgo e molti altri, ma soprattutto abbiamo dedicato molte energie al progetto Mura. Nel 1981 un numero monografico di Parametro, il 96 , illustra questa prima fase progettuale, insieme alla storia delle trasformazioni della città svolta da Lucia Frattarelli Fisher e un saggio sulle metodologie confuse e poco appropriate per il restauro delle case torri di Pisa a cura di Gabriella Rossetti dell’istituto di medievistica della città insieme ai suoi assistenti, Frugoni, Garzella, Leverotti, Redi. Questi avevano collaborato con me al restauro di Palazzo Lanfranchi fornendo una lettura profonda e dettagliata dell’evoluzione dell’edilizia medievale pisana, con ricerche confluite nel libro “Un Palazzo una città, Palazzo Lanfranchi in Pisa”, Pacini editore, 1980. Nell”86 un volume Electa, presentato da Giancarlo De Carlo, illustra il lavoro di un decennio dell’ufficio progetti come catalogo della mostra svoltasi nel 1985 nella manica lunga dell’Arsenale Mediceo restaurato nel 1980 dalla Soprintendenza, che suscitò molti consensi a livello locale, nazionale e internazionale. In questa occasione vennero presentati molti rilievi del centro storico con le Mura della Cittadella, l’arsenale repubblicano e quello Mediceo, il maschio e la torre, uno dei più belli e impegnativi rilievi, realizzato da un gruppo formato da laureandi esterni, Luciano Coli, Daniele Colombini, Riccardo Davini, per una magnifica tesi di laurea presso la Facoltà di Architettura di Firenze, da me seguita insieme al relatore Prof. Carlo Cresti. È in questo periodo che viene affrontato il progetto di recupero del sistema di chiuse del Canale dei Navicelli in corrispondenza dello sbocco in Arno, sulla base di un rilievo di Cesare Cassanelli, Luca Cini e Piera Porcari, la realizzazione di un percorso dal Duomo alla Cittadella lungo le mura, il recupero della Fortezza del Sangallo con il percorso coperto di 300 metri che doveva concludersi con l’affaccio sull’Arno. Anche questo progetto si era sviluppato sulla base di un bellissimo rilievo realizzato da Dunia Andolfi, Antonio Gaudino, Albertino Linciano.
È stata un’esperienza molto intensa, cresciuta in un breve scorcio di tempo da parte di un piccolo gruppo di persone affiatate. Considerato poi che contemporaneamente si progettavano cimiteri, scuole e residenze, questa è stata l’occasione per approfondire l’elaborazione di un codice linguistico e una sintassi fondata sull’uso di pochi materiali: il calcestruzzo armato, il laterizio, il ferro, il vetro, in un piccolo studio professionale pubblico completamente votato al miglioramento dei servizi e della qualità della città.
Tutti i componenti del gruppo lavoravano per un obiettivo comune verso il quale li guidavo, tenendo conto che ero allora l’unico laureato.
Non credo che oggi sia possibile un’esperienza del genere a causa di molte ragioni tra le quali il grande numero degli architetti e la decadenza culturale ed etica del personale politico. Inoltre durante i 16 anni in cui ho lavorato per il comune non esistevano percentuali che incrementavano lo stipendio in base al lavoro svolto e non era così accentuata la conflittualità tra professionisti interni ed esterni.
Pensare che basti avere architetti all’interno della struttura amministrativa del comune per avere brillanti risultati si è rivelato in tutta Italia una pia illusione. Per ottenere buona architettura servono architetti di particolare capacità. Ma è noto che questa caratteristica non è tra le più richieste per accedere ad un impiego pubblico. Nei primi anni dell’Ufficio Progetti esisteva una consonanza molto stretta tra i programmi dell’amministrazione, il nostro lavoro, e l’attività collaborativa di altri uffici, che allora avevano una dimensione molto ridotta, coordinati da un intelligente ed autorevole ingegnere capo. Relazioni personali di stima reciproca, lontane anni luce dall’attuale fredda e spesso ostile prassi burocratica, hanno agevolato l’evoluzione del lavoro verso traguardi difficilmente ipotizzabili senza la positiva comunione di idee e di intenti con la Soprintendenza.
Una delle scelte che lei ha adottato, durante i suoi primi anni di attività, è stata quella di produrre, nel tempo e con pazienza, un rilievo della città. Quale importanza riveste il rilievo nel suo metodo di lavoro?
Il rilievo della città alla scala architettonica è la base fondamentale per il progetto di restauro come per la costruzione di nuova architettura in contesti antichi. Inoltre alla scala urbana consente di leggere le caratteristiche della città per individuare le opportunità di trasformazione e miglioramento che possono offrire. Poiché il rilievo di ampie parti di città richiede molto lavoro, soprattutto il rilievo manuale ancora necessario negli anni 70 – 80, ho cercato di indirizzare molti studenti della Facoltà di Ingegneria di Pisa e della Facoltà di Architettura di Firenze verso temi urbani per le loro tesi di laurea, che richiedevano come base approfondimenti della loro storia e della loro configurazione fisica. Molti dei rilievi sono stati acquistati dal Comune o dalla Soprintendenza, consentendo di ottenere una planimetria quasi completa della città in scala 1:1000 che è stata la base per i miei studi delle soluzioni urbanistiche proposte ad esempio per il Progetto Mura. Negli anni ’80 ho organizzato persino un corso di rilievo. Purtroppo non sembra che sia stata di grande utilità per le più recenti trasformazioni della città.
Nel 1991 ho raccolto gran parte dei disegni dei rilievi realizzati dal ’74 al ’91 in un volume a cura di Fabrizio Sainati, edito da Alinea con la collaborazione di Dunia Andolfi. La mia introduzione al libro, presentata dall’allora Soprintendente Gianna Piancastelli, illustra bene lo spirito e l’organizzazione di un ufficio pubblico e il suo obiettivo di fornire uno strumento per la progettazione di una città di qualità migliore, e nello stesso tempo orientare gli studenti verso un settore particolarmente utile del lavoro, considerata la grande quantità dei centri storici in Italia. Nel 1993 un volume edito dal Poligrafico e Zecca dello Stato ha pubblicato il rilievo del Camposanto Monumentale realizzato da un folto gruppo di collaboratori che avevano maturato una notevole esperienza in questo settore con un risultato grafico d’eccezione dovuto in particolare all’abilità di un architetto turco, Ayse Orbay, che aveva svolto in precedenza un periodo di apprendistato nel nostro ufficio con una borsa di studio del Ministero degli Esteri del suo paese. (autori del rilievo: Andolfi, Belforte, Orbay, Pasqualetti,Re, Porcari, Batini, Pistelli, Pardini).
Ha dedicato alle mura di Pisa uno studio lungo e approfondito. In che cosa consiste questa proposta?
Ci sono episodi progettuali che hanno negato questa sua visione urbanistica delle mura?
Il progetto elaborato all’interno del Comune e approfondito dopo il 1990 con varie tavole a colori in scala 1:1000 realizzate nel mio studio ed esposte a Palazzo Lanfranchi per un solo mese nel ’98, prevedeva la sistemazione delle aree libere a verde con un percorso pedonale lungo l’anello esterno delle Mura e la demolizione di alcune costruzioni obsolete per ottenere la completa visibilità delle stesse dall’esterno come simbolo di una bellissima e sfortunata città, restaurando anche alcuni monumenti come la Cittadella con i suoi Arsenali, la Fortezza Fiorentina, ecc..
A parte i necessari lavori di manutenzione, il mio era un progetto urbanistico che non prevedeva alcun intervento di trasformazione delle Mura che è invece diventato il principale obiettivo del progetto che è stato poi realizzato dall’Amministrazione Comunale, teso a rendere percorribile la sommità. Non mi sembra cosa riprovevole rendere praticabili alcune parti dei “percorsi di ronda” di città secondarie, ma pretendere di farlo per chilometri e in particolare davanti al Battistero Pisano mi è sembrata una scelta offensiva contro la quale Emilio Tolaini pronunciò accorate quanto inascoltate riflessioni che non hanno impedito all’Amministrazione di proseguire nel suo intento fino a San Silvestro. Basta confrontare le foto del camminamento originale in mattoni molto inclinato verso l’interno e la fotografia dello stesso punto dopo i lavori con il pavimento in pietra chiara e le ringhiere alla moderna. Oppure confrontare le foto del tratto di Mura lungo Via del Brennero con il profilo originale dei merli in mattoni con lo stesso punto con i merli tamponati per creare un parapetto continuo. In quel tratto dove le mura formano uno spigolo è interessante osservare il paramento prima dei lavori così detti di “restauro” con i filari di pietre stuccati in modo molto vistoso con malta bianca e con molte pietre integrate.
Che queste operazioni siano state realizzate con il consenso della Soprintendenza fa capire come la carta del restauro possa essere interpretata con la massima libertà, rendendo irriconoscibile il monumento più importante della città. Io penso che la vera sfida di Pisa sia quella di perfezionarne la bellezza scoprendo quella nascosta dai più vari accidenti, nella palese constatazione che spendere tanti soldi per rendere percorribile la sommità delle Mura non abbia aggiunto una virgola allo stato attuale della città mentre peggiora assai la percezione del monumento, con un’operazione di corto respiro “commerciale”, come ebbe a dire dall’altezza della sua autorità culturale Emilio Tolaini nel libro che tutti i pisani dovrebbero leggere intitolato “Le Mura del XII secolo e altre fortificazioni nella storia urbana di Pisa”, edito da Bandecchi & Vivaldi nel 2005. Ma altre gravi trasformazioni appaiono ingiustificate alla luce delle normative sul restauro, che contraddicono in modo palese la filosofia di un progetto sensato, inserito già nel 1989 in una tavola del piano Regolatore redatto con Giovanni Astengo.
L’interruzione del percorso coperto della Fortezza Fiorentina, che si doveva concludere secondo un progetto dei primi anni ottanta con un affaccio sull’Arno secondo anche un Piano di Recupero da noi redatto per incarico del Comune durante la seconda metà degli anni novanta, è un danno grave all’unità funzionale e paesistica del grande monumento.
Il rudere della questura, che doveva costituire la fine di un percorso coperto che conduceva dal Maschio all’Arno, era stato venduto a privati i quali col tempo lo hanno venduto probabilmente ad altri privati che ne hanno fatto una ricostruzione completa negando per sempre la conclusione del loggiato sull’Arno con i relativi servizi e la discesa a livello del terreno anche per i disabili.
L’ultimo sopralluogo di qualche tempo fa mi ha consentito di verificare che erano state eliminate persino le cornici in pietra serena di accesso all’edificio. La mia partecipazione alla vicenda del restauro del Giardino Scotto come parco cittadino era iniziata molti anni prima con un progetto che prevedeva la demolizione dell’edificio appoggiato sul fianco nord del ponte e dei ruderi della fabbrica di vetro sul segmento nord del fossato, per ottenere di nuovo l’unità spaziale precedente e uno specchio d’acqua. Non mi pentirò mai abbastanza di questa previsione insensata non infrequente in quegli anni e mai discussa ne osteggiata dalla Soprintendenza o da altri.
Con l’esperienza maturata negli anni, questi edifici avrebbero potuto essere restaurati e utilizzati contribuendo a costruire un paesaggio più complesso e più utile, considerando anche la indefinitezza e l’abbandono attuale del fossato che per un certo periodo è stato utilizzato come parcheggio. Già durante i lavori iniziati cercai di fermare almeno la demolizione dei grandi pilastri della fabbrica, proposta che il direttore dei lavori non accettò.
È evidente che la mia formazione nel campo della conservazione non aveva ancora raggiunto sfortunatamente la maturità necessaria. Tuttavia cercai di riscattare i miei errori in un lavoro di poco posteriore, il recupero delle Cateratte Medicee, dove prevedevo la conservazione dei ruderi dei fabbricati a ridosso delle Mura, che invece sono stati demoliti nei recenti lavori di sistemazione dell’area. La cultura della conservazione non ha ancora raggiunto tutti i progettisti, e spesso neppure le soprintendenze. Il Canale che all’altezza del Forte di Stampace piegava correndo parallelamente al tratto di mura che ospitava la Porta a Mare nel XIII secolo era stato attrezzato con due cataratte e una conca che consentivano il passaggio dei navicelli anche quando i livelli delle acque dei due corsi d’acqua erano diversi. Una si trovava nel rudere di mattoni poi restaurato dall’Arch. Andolfi e una nel complesso affacciato sull’Arno, chiamato Sostegno, che contiene una parte delle Mura di cui è visibile una sezione sulla facciata nord. Dopo la guerra questa parte del canale era stata riempita dalle macerie delle case distrutte e utilizzata come parcheggio. Era stata poi aperta nelle Mura una grande porta ad arco che metteva in comunicazione Via Lavagna con Via Conte Fazio che attraversava la grande area ortiva compresa tra le due file di edifici affacciati sul fosso e sull’Arno. In quest’area la Saint Gobain aveva costruito le prime case dopo i bombardamenti lungo la ferrovia del tram Pisa, Marina Livorno.
Ho visto realizzare con meraviglia sia la Porta sopramenzionata che il Ponte della Cittadella e le architetture più significative edificate a Pisa nel dopoguerra: la Chiesa di San Giovanni al Gatano, progettata da Saverio Muratori e rimasta parzialmente incompleta, e il poliambulatorio rivestito di piastrelle da Melchiorre Bega, oltre all’asilo di fronte. Con un cantiere dei primi anni ’80 ero riuscito a far scavare il tratto di Canale sul lato nord della Porta, compreso il Voltone sotto la strada conservando i ruderi dell’edificio accosto alle Mura. Il tratto di Canale a sud della nuova Porta è rimasto invece riempito di macerie e trasformato in un giardinetto occupato in parte da una nuova rotonda stradale. Fino ad una recente sistemazione si sono conservati i ruderi di alcuni edifici che alla fine sono stati distrutti.
Il mio progetto prevedeva il ripristino del collegamento del Canale tra l’Arno fino al Forte di Stampace recuperando le strutture in mattoni interrate e da restaurare, eliminando il collegamento tra Via Lavagna e Via Conte Fazio della Gherardesca, oppure sostituendolo con un sottile ponte in ferro. Sul numero monografico 118 del Giornale dello IUAV (Istituto Universitario di Architettura di Venezia dove insegnavo) del 2012 vengono presentate alcune tesi di laurea sostenute da studenti che seguivano il mio “Laboratorio Integrato per la Conservazione tre” che approfondivano alcuni temi progettuali di recupero del lato ovest delle Mura, dal Duomo al Forte Stampace. Una di queste tesi, di Gatto, Carpanese e Bertizzolo, proponeva di recuperare l’intero corso del Canale dei Navicelli liberandolo dal recente interramento, e di ricostruire il ponte distrutto dalla piena dell’Arno del 1896 che collegava i due arconi che si fronteggiano sui lati opposti del fiume: della Cittadella, tuttora esistente, e del Sostegno, oggi tamponato, che veniva riaperto. Cosa che sarebbe possibile fare anche senza ricostruire il ponte così come l’arcone che sovrasta il canale che sfociava sull’Arno. Una delle tesi, quella di Marcello Galiotto e Alessandra Rampazzo, oltre a suggerire una soluzione interessante per la sistemazione paesistica della Cittadella e dell’area lungo la riva ovest dell’Arno, illustra anche altre tesi di colleghi dello stesso anno accademico 2009 – 2010 inserendoli nella veduta assonometrica digitale di tutta l’area realizzata nel 2003 da Lorenzo Carmassi. Questa assonometria generale è stata utilizzata anche da tutti gli altri studenti del corso diretto dal sottoscritto. La tesi di Galiotto e Rampazzo propone in particolare aree di scavo archeologico, che non mi pare sia stato fatto finora, e una soluzione corretta del restauro del prospetto est dell’Arsenale Repubblicano evitando di svuotare, come purtroppo è stato poi fatto, le parti che ancora tamponavano i lacerti degli archi originali per ricostruirli con molti errori formali e senza alcun rispetto delle regole del restauro. Le foto a confronto dello stato originale e del prospetto ricostruito non possono lasciare dubbi.
Uno dei più bei rilievi, l’ultimo che ho seguito, riguarda Forte Stampace, realizzato da Cinacchi e Montanelli nel ’93-’94 per la loro tesi, relatore Prof. Giovanni Gruciani. Tra la strada e le Mura nei pressi del Bastione San Giorgio, all’estremità est della città, esisteva una vecchia scuola di cui il nostro progetto prevedeva la demolizione per aprire un varco di visibilità verso le Mura in un punto dove risultano particolarmente nascoste. La scuola è stata demolita ma al suo posto è stato costruito un edificio in ferro e vetro destinato a biblioteca a pochi metri dalle Mura, che ne permette l’accessibilità ma non la visibilità dalle strada.
La sua attività professionale è fortemente presente sul territorio pisano grazie alle numerose opere che ha lasciato, ma contrasta con la sua assenza fisica e pubblica degli ultimi decenni, quasi come se fosse andato in esilio. Può spiegarci cosa è successo?
Nel 1990 mi sono licenziato dal comune di Pisa perché l’atmosfera di collaborazione con gli impiegati dell’ufficio era parecchio cambiata. Alcuni di costoro entrati in Comune come geometri, dopo alcuni anni si erano laureati in architettura e dimostravano di non gradire una gestione centralizzata e severa dell’ufficio da parte mia come avviene generalmente in uno studio esterno di analoga modesta dimensione.
Nello stesso tempo il cambio di amministrazione e la riduzione delle disponibilità economiche pubbliche non sembravano garantire più un’intensa stagione progettuale, mentre il numero degli architetti esterni in città e in Italia era aumentato in modo esponenziale come in nessun altro paese europeo e del mondo, a causa anche della facilità con cui poteva essere superato il corso di studi e la laurea anche senza frequentare l’università. Questi fenomeni avevano generato nei confronti della politica una pressione esterna molto forte per ridurre il lavoro interno al Comune a favore di una più estesa distribuzione alle professionalità esterne. Comunque questa interruzione non deve essere stata particolarmente gradevole perché da allora non ho più messo piede dove avevo lavorato per 16 anni. Faccio presente che quando ho deciso di lasciare il comune nel maggio del 1990 non avevamo alcun lavoro: per fortuna sono stato invitato nell’estate a insegnare negli Stati Uniti e contemporaneamente a partecipare, con altri 5 importanti architetti, al concorso per il restauro di Santa Maria della Scala a Siena.
Dal ’90 al ’97, periodo in cui ho continuato a vivere e lavorare a Pisa, i miei rapporti di lavoro con la città si sono a poco a poco allentati fino ad interrompersi del tutto. Mentre il nostro studio cominciava a ricevere incarichi importanti da realizzare in altre città italiane ed europee e incarichi di insegnamento in varie università italiane e straniere, Roma, Torino, Parma, Milano, Arezzo, Lucca, Livorno, Lipzia, Dresda, ecc., gli incarichi per operare su Pisa venivano sistematicamente contrastati all’amministrazione con motivazioni pretestuose e non sono andati a buon fine. Per questi ed altri motivi pratici nel ’97 abbiamo trasferito lo studio a Firenze dove ho vissuto e lavorato fino al 2013, con incarichi e realizzazioni di prestigio in vari luoghi e con la chiamata come professore ordinario a Venezia dove ho insegnato fino al 2013, ma con la totale impossibilità di realizzare opere a Pisa.
Nel ’98 avevamo consegnato all’amministrazione un progetto di recupero urbano della zona industriale di Porta a Mare lungo il fosso dei navicelli, realizzato su incarico di un imprenditore, senza ricevere una parola di risposta. Tutti possono ammirare cosa invece è stato fatto in alternativa all’incrocio tra la Via Aurelia e la Via Livornese. Non credo però di aver avuto alcun attrito specifico con le ultime amministrazioni. Quando nel 1990 ho capito che erano cambiate le condizioni attraverso le quali avevo potuto affrontare un programma progettuale che ritenevo indispensabile per la città, mi sono licenziato. Ho avuto qualche illusione che le cose potessero cambiare fino ai primi anni 2000. Poi ho capito che non c’era più nulla da fare. Non è un caso che il San Michele in Borgo i cui lavori erano iniziati nel 1986 sia rimasto inutilizzato. Nel 2001 infatti, conclusi e collaudati i due terzi della ricostruzione del retro di San Michele in Borgo, con 7 appartamenti molto accoglienti e 3 negozi, e con la terza parte di Via Vernagalli manchevole solo delle finiture interne, il complesso è stato abbandonato a se stesso per 18 anni e più volte occupato con gravi danni agli interni. È inutile che rammenti le polemiche che ho subito in questi ultimi 18 anni, considerato che i lavori erano iniziati nel 1986, 33 anni fa, quasi negli stessi giorni in cui erano iniziati i lavori del raro e complesso restauro del Teatro Verdi conclusi appena 3 anni dopo nel 1989. Negli anni passati mi è stato riferito che l’assessore ai lavori pubblici ne aveva proposto la demolizione, voce del resto riemersa recentemente, poi smentita, ma senza alcuna ipotesi di provvedere al suo completamento.
Peraltro è divenuta abitudine popolare chiamare il complesso in questione “la mattonaia” con evidente intento dispregiativo.
In effetti la vera mattonaia, cioè la fabbrica di mattoni tra la Via Livornese e l’Arno è stata distrutta davvero, nonostante fosse un’illustre testimonianza di architettura industriale, per sostituirvi villette.
Il bel Cimitero di San Michele degli Scalzi è stato ampliato senza alcun rispetto, senza chiedermi un consiglio, mentre sarebbe stato possibile, con un po d’intelligenza, ottenere lo stesso risultato funzionale in modo dignitoso. Il Cimitero Suburbano, nato per offrire loculi a basso prezzo, mentre vicino si dava il via al cimitero della Misericordia, è stato stravolto in modo indecoroso dopo aver consumato i loculi e ogni posto in terra, senza completare i corpi dei loculi verso est, dando forma, con rozza noncuranza, a una specie di periferia cimiteriale. Nonostante ciò non sono mai intervenuto pubblicamente per queste inutili offese al patrimonio edilizio della città, né sono mai stato consultato nel merito.
La cosa più dolorosa però è l’essere stato escluso completamente da una qualsiasi collaborazione al “Progetto Mura” al quale avevo lavorato per 30 anni. Il rapporto con l’amministrazione si è interrotto senza una parola di spiegazione subito dopo aver organizzato nel ’98, con Emilio Tolaini, per conto dell’Amministrazione Comunale, la grande mostra sul progetto al quale avevo continuato a lavorare anche a Firenze, investendo molto tempo e molte spese personali dal mio licenziamento nel 1990. Finché ho saputo poco dopo che il Comune avrebbe fatto un concorso proprio sul lato ovest delle mura i cui risultati sono stati inutili, a parte la proposta di Giorgio Grassi di ricostruire il tratto demolito delle mura che attraversa l’ospedale. Persino il progetto del vincitore David Chipperfield, che io stimo, si è rivelato del tutto estraneo al contesto, tanto da doverlo cambiare radicalmente, in modo irriconoscibile rispetto al progetto uscito dal concorso. Ciò nonostante di lì a poco gli è stato conferito direttamente l’incarico di progettare l’area della Cittadella. In realtà già covava in Comune l’idea di concentrare tutto l’impegno economico nel rendere percorribile la sommità delle Mura, tant’è che una piccola parte del percorso era già stata realizzata prima della mostra, proprio davanti al Battistero e al Camposanto, suscitando lo sdegno di Emilio Tolaini che ebbe a definire l’autore del progetto, in un convegno pubblico all’Opera del Duomo, “flagello di Dio”. E mi limito a citare solo alcune delle cause che hanno provocato questo disamore verso la città e il desiderio di starne lontano. In una rara occasione in cui ebbi a rispondere ad una intervista di un giornale locale con alcune critiche sull’operato della giunta sulla città la giornalista fu contestata.
Una delle polemiche più forti rivolte alle sue opere riguarda il cimitero di San Piero a Grado, che ha ispirato molti architetti suoi coetanei. I problemi attuali sono relativi ad errori progettuali o di manutenzione? Abbiamo dato un’occhiata al dettaglio tecnico dell’impluvio, ad esempio. Perché non c’è una sua versione che emerge pubblicamente?
Per quanto riguarda il Cimitero di san Piero, il più curato, quello dove sono sepolti i miei genitori e i miei parenti, la mia principale collaboratrice Arch. Dunia Andolfi, rimasta in Comune per molti anni dopo il mio abbandono, ha perso inutilmente il fiato per spiegare cosa sarebbe stato necessario fare per ovviare ad alcuni inconvenienti che si verificano in ogni edificio o architettura sui quali non vengono effettuati necessari interventi di manutenzione e di adeguamento ai problemi che possono sorgere nel tempo. Nessun edificio è eterno senza manutenzione, e soprattutto un’architettura che non fa riferimento a tipologie correnti può dare origine a problemi, che tuttavia si possono risolvere con un po di mestiere, come la realizzazione di una copertura impermeabile dei campi murati sotto il piano di travertino o la pulizia dei canali e dei pluviali dei corpi lunghi dei loculi, trascurata anche se indispensabile visto che gli spazi dedicati al pubblico sono coperti per rendere più agevole la visita ai defunti sulle lunghissime panche di quercia. Alcuni tigli messi a dimora sulla piazza esterna e due acacie nella piazza interna sono state lasciate morire con la massima disaffezione, senza sostituirle.
Il dettaglio costruttivo “diverso” dal comune del cimitero di San Piero fa emergere un tema più grande, quello della sua attenzione al dettaglio artigianale.
Ho cercato con il passare degli anni di dedicare sempre più attenzione alla durata degli edifici pubblici e quindi alla definizione dei dettagli costruttivi. Per quanto sia difficile ho sempre cercato di disegnare personalmente i miei progetti insieme ai particolari costruttivi che considero inseparabili. Mi pare che oggi in molti restauri vengano utilizzati per parti importanti come gli infissi produzioni di carattere industriale che non sembrano adattarsi ai contesti antichi.
Qual è l’eredità professionale che Carmassi ha lasciato nella città di Pisa? Molti dei progettisti presenti adesso sul territorio sono stati suoi allievi. Se, e in che termini, si è innescata una trasmissione di visione della città e sensibilità progettuale tra lei e i suoi vecchi collaboratori? Che tipo di ”Maestro” è stato per loro? È impossibile non notare sul territorio una certa quantità di progetti che si rifanno al suo linguaggio progettuale, e non parlo di dettagli, ma intere costruzioni. Una certa eredità stilistica, non solo quella diretta ai suoi allievi, in qualche modo, l’ha lasciata.
La mia eredità professionale si limita ad alcune opere realizzate in varie parti della città. Le nuove architetture come scuole, cimiteri e residenze oltre a suscitare interesse nel mondo della cultura architettonica internazionale hanno influito sicuramente sull’immaginario collettivo di diversi architetti a Pisa, in Toscana e in Italia. Credo tuttavia che l’influenza più profonda e duratura sia derivata dalla nostra metodologia di restauro sperimentata in vari lavori comunali come il Teatro Verdi, ma anche in quelli successivi alla mia uscita dal comune nel ’90, come alcune case raccolte in un volume Electa del 1998 “Del restauro 14 case” che ha avuto 5 edizioni, e alcuni restauri successivi di notevole dimensione come quello della Pelanda del Mattatoio del Testaccio a Roma e il restauro del Panificio Austroungarico di Verona come sede della Facoltà di Economia. Soprattutto il restauro del Palazzo Ducale di Guastalla ha indicato nuove basi metodologiche per la conservazione, il recupero e la valorizzazione delle stratificazioni in rapporto equilibrato con le poche e necessarie addizioni contemporanee.
A Pisa e non solo ci sono alcuni bravi architetti che hanno fatto buoni restauri.
Palazzo Lanfranchi è stata una delle sue prime opere a Pisa. Perché è stato importante per lei? e soprattutto, in termini di restauro, quale è stata l’importanza di mostrare la stratigrafia costruttiva del palazzo? Possiamo affermare che quello fu il principio di un particolare approccio metodologico al restauro? Cosa pensa di situazioni analoghe, quindi con edifici sviluppati da case torri, in cui sono state fatte scelte anche diametralmente opposte?
Quale è il suo ruolo nel dibattito sul restauro? Come valuta nel dibattito culturale il ruolo che i vari attori in scena svolgono?
Quando sono uscito dall’università sapevo poco di restauro. Da studente prima per “caratteri stilistici” e poi per “restauro” avevo fatto insieme ad altri amici il rilievo di una finestra di palazzo Pitti, il rilievo manuale di Piazza dei Cavalieri e il montaggio delle particelle di Piazza delle Vettovaglie e degli isolati limitrofi per ottenere la pianta del piano terra di una piccola parte del centro storico, ampliati poi su mio invito da alcuni architetti che hanno completato la parte centrale del Centro Storico (Tosi, Pacciardi, Martini, Ruggeri). Agli esami le domande vertevano su questi temi. Delle lezioni non avevo alcuna memoria, ammesso che le avessi seguite. Partivo alla 5 di mattina in treno da Pisa per arrivare alla sala dal cielo blu stellato di Palazzo Pitti alle 8, dove la lezione era costituita dalla lettura a bassa voce di un librone sull’Ammannati con qualche considerazione che non capivo. Comunque appena arrivato in comune, nell’aprile del ’74, mi dettero da seguire il cantiere di manutenzione straordinaria di Palazzo Lanfranchi che era stato utilizzato come scuola fino alla sua chiusura alcuni anni prima.
La cifra a disposizione era di 160 milioni di lire, che anche allora erano pochi, calcolata su un progetto sommario di poche tavole redatto dal geometra che mi aveva preceduto. Non feci a tempo a prendere possesso dell’incarico che il tetto era già stato smantellato dall’impresa e l’intonaco delle pareti spicconato come si faceva allora. Potei accorgermi che in qualche stanza erano emersi sotto l’intonaco lacerti di pitture stese direttamente sulle superfici di mattoni delle murature. Fui svegliato come da un lungo sonno dal libro del Tolaini “forma Pisarum” che descriveva la storia urbanistica della città. Approfittando delle impalcature si organizzò con il personale dell’ufficio, Andolfi, Berti, Bertini, Bacci, Carzoli, Davini, un rilievo totale dell’edificio, dalle facciate alle numerose sezioni arricchite della loro composizione materiale e delle decorazioni. Fu in quel momento che iniziò una stretta collaborazione con l’Istituto di medievistica dell’università, diretto da Gabriella Rossetti. Insieme ai suoi allievi e collaboratori fu realizzato uno studio profondo delle stratificazioni archeologiche del palazzo e delle aggregazioni delle varie unità medievali fino alla sua configurazione rinascimentale e poi ottocentesca, quando una grande scala in pietra fu inserita nel cuore dell’edificio, illuminata da un lucernario, che sostituiva la più antica scala rinascimentale. Poiché le strutture verticali dei pilastri medievali e degli archi ogivali erano stati inglobati in una facciata completamente in mattoni che costituiva una superficie omogenea di colore caldo, si decise di mantenerla a vista per consentire la lettura delle stratificazioni quasi millenarie che la caratterizzavano.
Anche per il prospetto sul giardino fu adottata la medesima soluzione. Per il prospetto est e per le superfici delle murature interne si decise invece di intonacare le lacune di origine recente prive di decorazioni dandone una configurazione geometrica a rilievo rispetto alla muratura grezza e disordinata. Con l’esperienza accumulata negli anni avrei evitato di intonacare queste parti, come avrei cercato di correggere alcuni di questi errori se mi avessero coinvolto anni dopo, quando sono stati integrati gli impianti di illuminazione e di climatizzazione e costruito una scala di sicurezza esterna obbligando di certo ad intervenire di nuovo sulle murature. Con il mestiere maturato in tanti anni, avrei cercato fin dall’inizio di impedire la stonacatura di tutte le pareti interne per mettere in evidenza le decorazioni più recenti nascoste dalle imbiancature, che in alcune parti avrebbero potuto essere associate alle decorazioni medievali più profonde dove non esistevano decorazioni superficiali. Successivamente abbiamo imparato a conservare la sovrapposizione delle varie stratificazioni archeologiche a cominciare dai primi lavori di restauro di appartamenti fino ai più grandi interventi come casa Guglielmetti a Lucca, casa Pierotti, la casatorre in Via Cavalca e la nostra casa-studio a Pisa. Tuttavia questo lavoro, nonostante gli errori, ha permesso di studiare in dettaglio per la prima volta il sistema di aggregazione di casetorre medievali per realizzare un palazzo rinascimentale, e di adottare anche una sintassi corretta per uno spazio antico-moderno. Il metodo archeologico adottato a Palazzo Lanfranchi è stato corretto e perfezionato nel corso del tempo, attraverso cantieri di modeste dimensioni. Nel restauro del Palazzo Ducale di Gonzaga a Guastalla è stato possibile adottarlo su vasta scala in tutte le sue sfaccettature, anche se la sua fondazione risaliva solo a metà del ‘500 e dunque non era necessario un confronto con il medioevo. Nel restauro di palazzo Gonzaga non abbiamo perso una pur piccola frazione di quello che abbiamo trovato nonostante che siano stati necessari lavori di consolidamento e di rifacimento degli impianti. Soprattutto abbiamo cercato di valorizzare le stratificazioni materiali e decorative dimostrando quanto sia complessa la vita di un edificio e trasformando la sovrapposizione delle decorazioni in una sorta di nuova fase artistica: l’ultimo strato della storia del Palazzo. L’obiettivo del nostro lavoro è quello di conservare quello che ci è stato tramandato dalla storia migliorandone la funzionalità e, se possibile, la bellezza. Negli anni del Lanfranchi non avevamo maturato tutte queste capacità. Dobbiamo rammentare d’altra parte che negli stessi anni venivano svuotati completamente importanti palazzi per ospitare nuove funzioni, solo a Pisa: la Banca d’Italia in via San Martino, il Monte dei Paschi in Lungarno Pacinotti, la Cassa di Risparmio in Piazza Dante, l’Archivio di Stato di fronte al Palazzo di Giustizia, ecc.. Senza contare che nell”800 erano state demolite intere zone nel quartiere di San Francesco per costruire il nuovo Palazzo di Giustizia e per ottenere la nuova Piazza di San Paolo all’Orto, insieme a molti altri isolati rasi al suolo per costruire il Teatro Verdi, il Liceo, la Caserma dei Carabinieri e la nuova Corte d’Assise, o per aprire o raddrizzare nuove strade, la cui storia richiederebbe da sola un volume. Molti libri sono stati del resto pubblicati per illustrare le pesanti trasformazioni nella città fino ai nostri giorni.
Per quanto riguarda la nostra partecipazione al dibattito sul restauro oltre a tenere conferenze per illustrare il nostro metodo di lavoro, abbiamo cercato di far seguire ad ogni importante restauro un volume che illustra la genesi, il confronto di immagini prima e dopo l’intervento, oltre i dettagli costruttivi che abbiamo adottato. Un restauro non può dirsi ben riuscito se le poche addizioni funzionali contemporanee non sono disegnate in modo da raccordarsi con equilibrio all’atmosfera estetica dell’intero edificio. D’altra parte la Carta del Restauro è così generica che può essere interpretata da chiunque come vuole, soprattutto dagli enti di controllo sulla materia come le Soprintendenze. Questa genericità lascia molta libertà soprattutto nelle addizioni nuove e, considerato il clima disciplinare confuso aggravato dal sistema mediatico che privilegia l’originalità e i contrasti, produce anche restauri distruttivi piuttosto che conservativi.
Su questo tema si decidono spesso i concorsi che sono il campo principale di confronto professionale, più che culturale, tra le grandi società di ingegneria, approfittando di connivenze tra il sistema di potere in campo economico-edilizio e le istituzioni amministrative territoriali e culturali di controllo.
Osservando le sue opere si può apprezzare una certa volontà di dialogare con il contesto. Guardando alla media degli interventi recenti nel pisano, invece, si può parlare di una perdita di specificità? In termini di dimensione tattile, di materia, di colore, …
Negli anni ’80/’90 si stava generando una radicale trasformazione dei codici linguistici determinata in gran parte dai nuovi strumenti di grafica digitale che stavano rendendo ancora più problematici i rapporti tra i nostri contesti storici e le nuove architetture. Anche per questo il nostro approccio a supporto tra antico e nuovo aveva incontrato per contraddizione un certo successo ma non sempre il consenso pubblico. In un paese come l’Italia, dominato da centinaia di città e migliaia di paesi antichi, è indispensabile dialogare con il contesto.
La scuola e specialmente le università non dedicano a questa problematica l’impegno necessario, anche per mancanza di personale docente adeguato. Ma soprattutto insisto sul problema della bassa cultura media della popolazione italiana. Mi permetto di far osservare che in una città di antica cultura universitaria come Pisa è stato possibile pietrificare Piazza dei Cavalieri di fronte alla Scuola Normale e trasformare Piazza della Repubblica in una desolata spianata, frutto della più deteriore cultura kitsch, senza che una riga sia stata scritta per discuterne. Ma forse non leggo i giornali locali.
Nella cornice di questa perdita di popolarità sociale dell’architettura, ci riferiamo anche al contesto generale dell’Italia. Come mai la complessità dei problemi relativi alla disciplina non emerge, specialmente a livello mediatico?
Cosa crede che si possa fare per migliorare la qualità del dibattito pubblico rispetto ai temi di cambiamento e trasformazione della città?
L’architettura è un fenomeno edilizio ormai di carattere quasi esclusivamente economico e talvolta mediatico legato al potere finanziario, industriale e politico. Perfino le piccole cose sono influenzate dal potere politico burocratico. Nulla sfugge loro. I problemi della qualità disciplinare non emergono perché il sistema mediatico, anche di settore, fa parte di questo potere impenetrabile strettamente legato ai fenomeni di corruzione così diffusi ad ogni livello che è impossibile separarli dalla scarsa qualità dei nuovi edifici. Bisogna ritenersi fortunati che ogni tanto viene costruito qua e là qualche edificio dignitoso. In un paese dove metà o più della popolazione è semianalfabeta è possibile affrontare questo problema solo con un poderoso programma di scolarizzazione di lungo termine e di diffusione della cultura in tutti i settori della società non solo di quelli privilegiati. Auguro che il gruppo che avete formato ed altri che si stanno formando in tutta Italia contribuiscano alla rinascita di uno spirito critico per orientare lo sviluppo o il mantenimento del nostro paesaggio ad un livello qualitativo più elevato.
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