Di Gemma Salvadori


Il paesaggio nel cinema muto dopo una prima fase pionieristica ispirata alle vedute italiane si sviluppa lungo due principali correnti spirituali: la prima, di memoria storica, è basata sul richiamo dello stile greco e romano, a sottolineare l’esigenza di ricreare grandi scenari per una nazione appena nata. Nella seconda il luogo si dissolve all’interno del mondo borghese e aristocratico andando a recidere il passato contadino, esaltando l’ambiente urbano e gli interni di appartamenti e ville alla moda.

È proprio a partire dallo spazio, diretto rappresentante delle profonde trasformazioni che vincolano uomo e natura, che ha modo di svilupparsi la tecnica delle fotografie in movimento e con essa la teoria dei “punti di vista”. La visione delle bellezze del paesaggio italiano, grazie al dispositivo cinematografico, diviene a portata di chiunque diffondendo una differente consapevolezza nella massa. Tutto in questa nuova arte dello spettacolo sembra procedere bene riuscendo anche ad imporsi con successo ad un mercato che presto però raggiunge il suo punto di saturazione.

Gli spettatori cominciano a percepire l’ambiente, fino a questo momento solo destinato ad attività puramente documentaristiche, come qualcosa di “vuoto”: si rivela dunque la necessità di avere un racconto capace di riempire uno scenario ormai privo di vita. La reazione si ebbe con due grandi filiere nei primi anni Dieci del 1900: le “Diva Film” e le pellicole storiche mitologiche, che fanno risorgere il cinema muto italiano con inedita forza dalle sue ceneri, tanto da riuscire a diventare un punto di riferimento internazionale.

Così il paesaggio del cinema ritrova la sua nuova dimensione, da un lato lascia che sia l’ambiente domestico ad ispirarlo (vedute di interni, camere da letto liberty e salotti borghesi), dall’altro si tinge di una dimensione storica-archeologica eco di un passato glorioso greco-romano. E se nel primo caso l’ambiente finisce per essere divorato all’interno di un mondo che vuole dichiaratamente sospendere la continuità con un passato rurale in favore di quello urbano, nel secondo è evidente la voglia di riappropriarsi di questo spazio, vincolandolo ad un tempo lontano in cui è il mito l’elemento fondante del nuovo immaginario culturale.


Così mentre si vanno affermando i nomi leggendari di Francesca Bertini e Lydia Borelli, immersi nell’estetizzante scenario ispirato alla retorica dannunziana, il cinema storico-mitologico promuove l’uso delle vedute italiane come luogo per amplificare la potenza dell’immagine cinematografica. Nel 1914 esce “Cabiria” di Giovanni Pastrone. L’impatto del film all’epoca è notevole, specialmente negli Stati Uniti dove riesce ad influenzare registi del calibro di D. W. Griffith. Il paesaggio diviene qui funzionale alla sperimentazione dell’apparato scenografico come ricostruzione del passato.

Allo scoppiare della guerra lo scenario sembra non voler registrare cambiamenti: si girano pellicole patriottiche rifiutando di guardare la realtà di un paese martirizzato, non all’altezza di sostenere lo sforzo bellico soverchiante. Dopo Caporetto e Vittorio Veneto niente però fu più come prima. La censura del governo nel 1915 raggiunge livelli di restrizione altissimi, tanto da cercare invano di nascondere i risultati disperati di una paralizzante guerra di posizione. La convulsione sociale che segue il 4 Novembre 1918 in cui si impone il blocco politico-sociale portato avanti da Mussolini si ripercuote disastrosamente sul cinema costretto a piegarsi alla vocazione del regime proponendo uno scenario di propaganda immaginario e grottesco.

Ai termini degli anni venti il cinema entra nel sonoro…


Lydia Borelli in “Ma l’amor non muore”, 1913.
Scena del “Cabiria”, 1914.